a cura di Francesca Luzzio

È chiamata neorealista la narrativa che viene prodotta dalla fine della Seconda guerra mondiale sino a metà degli anni cinquanta

Il termine Neorealismo contiene un esplicito riferimento al Realismo francese e al Verismo italiano di fine Ottocento, ma di fatto si differisce soprattutto dal secondo perché lontano dal pessimismo verghiano, mentre appare più vicino al romanzo sperimentale di Zola per la volontà di impegno e di collaborazione riformistica con il potere costituito che questi manifesta.

Alla luce delle esperienze recenti ( la guerra, la partecipazione popolare alla Resistenza, le difficoltà di vita, le miserie)  si esamina anche la letteratura immediatamente precedente, quella degli anni Trenta: l’esercizio stilistico che diventa cifra, il recupero memoriale che diventa elegia, le caratteristiche insomma che la distinguono, sono tutte quante lontane dalle passioni e dalle posizioni  che la recente esperienza ha fatto maturare. Tutta quella produzione appare lontana dalla realtà, lontana dalla vita dei singoli e dalla collettività, pertanto dietro l’influsso di Gramsci, con il suo ideale di intellettuale organico che opera attivamente nell’ambito del blocco storico tra masse contadine e proletarie, dietro l’influsso di riviste come il Politecnico di E. Vittorini, comincia a proporsi e a realizzarsi una nuova letteratura che, come propone Lukàcs, rispecchi la realtà e ne denunci le carenze e gli orrori in una prospettiva positiva, foriera di rinnovamento.

In particolare, nel Politecnico, Vittorini sostiene che bisogna promuovere  una nuova cultura non più consolatoria, ma operativa, direttamente incidente sui meccanismi della società, una cultura che ”eviti le sofferenze, che le scongiuri, che aiuti ad eliminare lo sfruttamento e la schiavitù e a vincere il bisogno”;  la cultura precedente è stata una cultura che non si è saputa fare società ed è per questo  che essa non ha potuto impedire gli orrori del passato.

Ma l’elaborazione di questa nuova cultura impone vari problemi non ultimo quello dei rapporti con le forze politiche che per posizione ideologica e strumenti organizzativi, hanno la possibilità di provocare un salto qualitativo nella società, cioè la Sinistra e il partito Comunista, che attraverso  la nuova concezione sociologico-marxista dell’arte, attraverso riviste, quali Rinascita e Società, propongono in letteratura il perseguimento di un programma di politica culturale, ispirato dalle dogmatiche teorizzazioni di Znadov.

Vittorini, pur aderendo al partito Comunista, si considera non marxista anche perché non condivide la considerazione della letteratura come sovrastruttura dell’economia e l’asservimento di questa alla politica; né è il solo a pensarla in tal modo!

Infatti nasce una querelle intorno al problema del rapporto tra politica e cultura, tra libertà dell’artista e necessità di  un programma di politica culturale. Intervengono nella questione Alicata e Togliattti  a cui Vittorini risponde che, se l’intellettuale si allinea meccanicamente alle direttive di partito, non fa altro che “suonare il piffero della rivoluzione” e che lo scrittore rivoluzionario non può essere privato della libertà  di porre”esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone, esigenze interne recondite dell’uomo”che solo lui sa porre.

Su queste posizioni non è possibile trovare un accordo e nel 47 il Politecnico cessa le pubblicazioni. Sebbene la vita del Politecnico è così breve e caratterizzata dalle polemiche, nasce una nuova cultura, un fervore editoriale che fa conoscere il meglio della letteratura straniera, come Brecht, Sartre, che fanno dell’impegno il loro vessillo, sicché anche in Italia l’intellettuale esce fuori dal comportamento umbratile dentro l’orticello chiuso della letteratura asettica e la riempie di realtà.

La miseria dei contadini, la spartizione delle terre, la guerra, la resistenza, la lotta quotidiana per sbarcare il lunario, la prostituzione , le grandi masse protagoniste con le loro lotte della storia, saranno i temi ricorrenti di tanta narrativa del tempo che ha tra i suoi migliori rappresentanti autori come I. Silone, F. Jovine, Pratolini, Fenoglio, etc…, invece autori come Pavese in La luna e i falò , Alvaro in Gente in Aspromonte, Vittorini  in Conversazioni in Sicilia, non riescono a realizzare questa presa diretta della realtà, poiché nelle loro opere il reale si trasfigura in una dimensione lirico-simbolica, portata a un livello di mitica evocazione memoriale.

A dimostrazione di quanto suddetto, analizziamo brevemente quest’ultimo romanzo che, come sostiene R. Luperini, evidenzia le due anime presenti nel suo autore.                                                      Di fatto Vittorini da un lato possiamo considerarlo decadente per la sua formazione culturale e per la frequentazione di Solaria, dall’altro un’ideologico che cerca di concretizzare l’impegno nella forza del messaggio della scrittura letteraria.

La coscienza degli uomini è sofferente e disperata per quanto sta accadendo nel mondo: la guerra di Spagna, il fascismo, la miseria.                                                                                                        Silvestro, alter ego dell’autore, narratore e protagonista, sente profondamente il dolore per”il genere umano perduto” ed è agitato “da astratti furori, non eroici non vivi, non nel sangue”. Ricevuta una lettera dal padre, che gli ricorda l’appropinquarsi del giorno dell’onomastico di sua madre Concezione, è assalito dai ricordi del passato. Recatosi alla stazione per spedire la cartolina di auguri suggeritagli, si accorge di un manifesto che proponeva dei viaggi in Sicilia con il cinquanta per cento di sconto.

Nasce immediata l’idea di assecondare i suoi ricordi e ritorna nella sua terra, la Sicilia.

Così da un presente echeggiante di massacri, approda tra sperdute montagne e fichidindia, ma già durante il viaggio e poi anche nella sua mitica terra ritrova assieme al passato e, come confuso con esso, il presente.

Sul treno incontra il Piccolo Siciliano con la moglie dall’aspetto di bambina, che offre ai viaggiatori le sue arance; umiliato eppure ilare, disperato eppure mite, sogna l’America ” come il regno dei cieli sulla terra”.  Per tale motivo viene considerato un ribelle “uno che protesta” dai due questurini che si propongono come custodi dell’ordine costituito, chiamati da Silvestro “Coi baffi e Senza baffi”. Incontra anche il “Fiero Gran Lombardo”, il siciliano così chiamato per il suo aspetto fisico tipicamente normanno, che invoca nuovi altri doveri per gli uomini.

Giunto in Sicilia, il paesaggio e i dialoghi con la madre lo riportano ai tempi dell’infanzia, ma a riflettere anche sul presente, sul mondo offeso, quando in compagnia della madre infermiera visita i malati, i sofferenti nelle case” ammonticchiate di nespole e tegole”.

Ma il dolore del mondo come lo si può combattere?

Per la strada incontra l’arrotino Calogero, che reclama una lama per la sua rivolta e lo conduce da altri oppositori al regime: il sellaio Ezechiele, il panniere  Porfirio, ma le loro piccole armi, quali punteruoli e forbici,  non possono eliminare il male del mondo.

Al di là del simbolismo dettato dalla cultura dell’autore, ma anche dalla necessità contingente di evitare la censura, Silvestro- Vittorini vuole dirci che le opposizioni sono deboli, disarmate, pertanto ci vorrebbe acqua viva, ossia una teoria capace di progettare e proporre all’umanità un mondo nuovo, migliore.                                                                                                                                La compagnia di consapevoli impotenti si reca infine in osteria e per l’oste Colombo il vino ha la stesso significato simbolico dell’acqua viva, ossia la conoscenza delle cose, della verità, ma il vino assume anche una valenza negativa per gli avventori che si ubriacano e cantano per dimenticare la loro miseria, come il resto del popolo italiano d’altronde, addormentato nei fumi della menzogna fascista. Ma Silvestro fugge da quel luogo non vuole essere “meno uomo” annebbiando la sua mente nel vino, ma “più uomo”, vivendo consapevolmente, pur nell’impotenza, il dolore del mondo offeso.

Intanto si è fatto sera e la notte entra in lui, “notte su notte” : è notte fuori,  è notte nel suo animo.  Il nome della via vicina al luogo in cui egli si trova, si chiama “Belle signore” e per i Siciliani queste sono i fantasmi delle cattive azioni umane che si impadroniscono degli ubriachi resi inconsapevoli dal vino e li fanno soffrire, ma, pensa Silvestro, che non si possono impadronire di Uomini come suo padre che recitava Macbeth.

Ancora una volta dobbiamo leggere dietro la simbologia: nell’arte e nell’intellettuale c’è la consapevolezza del male che nei secoli ha sempre afflitto la storia e l’umanità .                                  Silvestro è  immerso in tali considerazioni, quando grida:- Oh mondo offeso, mondo offeso- e una voce risponde:-Ehm!-                                                                                                                                          In pagine di arduo simbolismo, dopo questo capitolo introduttivo della quinta parte,  il protagonista conduce il lettore in una dimensione onirica in cui immagina di trovarsi nel cimitero e di dialogare con un soldato morto che, alla fine, si rivela essere suo fratello Liborio, morto in guerra e che nelle sue divagazioni sovrappone liberamente immagini contemporanee a lui che parla, a immagini dell’infanzia e ad altre del recente passato, mescolando in una sorta di allucinato flash-back  i tempi. Poi Silvestro assiste alla rappresentazione teatrale che sempre, ogni notte fanno i morti; essi rappresentano le azioni per le quali sono morti e gloriosi, ossia i falsi miti dei despoti che per il loro potere illudono le masse “con ogni parola stampata, ogni parola pronunciata, ogni millimetro di bronzo innalzato”, ossia attraverso i giornali, attraverso i discorsi roboanti e vuoti, attraverso le statue commemorative, con il mito della gloria e dell’amor di patria e chiamano fortunate le madri, come Concezione, i cui figli muoiono in guerra.

Con questa ulteriore presa di coscienza del dolore e della morte, dopo essere stato a casa con la madre, che gli racconta della morte di Liborio, Silvestro esce e a lui che, mentre cammina, fuma e piange, si uniscono tutti coloro che incontra e che ha conosciuto il giorno prima, fin quando non giungono ai piedi di un monumento ai caduti, dove  tutti lo confortano, lo invitano a non piangere , ma Silvestro non piange per loro, per questa Sicilia, insomma non piange solo per la sofferenza e il male dei suoi tempi dei quali smaschera le false mitologie, ma per la sofferenza dell’umanità, per gli umili di tutti i tempi, sprovveduti e indifesi, offesi dalla miseria e dall’oppressione dei potenti.

Il monumento ai caduti è una figura di donna nuda, sorridente e, se in un primo momento, Silvestro assume il punto i vista della storia ufficiale, poi riconduce il discorso al tema del dolore ed afferma che la statua rappresenta la falsificazione della verità, infatti il suo sorriso è quello di chi conosce tutto della morte, ma la rappresenta come gloria; è la verità tragica nascosta sotto un bell’aspetto.

Nell’epilogo Silvestro è di nuovo a casa e sua madre lava i piedi a un uomo.  Difficile sapere chi sia: potrebbe essere, forse, il padre o il nonno, comunque egli è l’uomo ritrovato, al quale la madre lava i piedi nel segno evangelico dell’umiltà.

L’umanità a conclusione di questo viaggio, viene così purgata, resa monda.   Importante è anche l’affermazione di Concezione, che, essendo stata chiamata” Cornelia” da Silvestro, a causa della morte del figlio Liborio in guerra, adesso gli fa notare che si è documentata e sa che  i Gracchi non morirono in guerra., cioè non morirono per  valori manipolati, per una verità falsa,  per una patria retorica, ma in difesa del popolo oppresso, insomma da più uomini  e forse da più uomo Silvestro progettò l’espatrio in Spagna per combattere accanto di chi soffriva e moriva.

Attraverso il suo viaggio e gli incontri effettuati, Silvestro ha raggiunto la conoscenza, la verità, così può ripartire, ormai mondato, più uomo e i suoi furori non saranno più astratti, ma eroici, come quelli di G. Bruno.

Conversazioni non è un libro di memorie. così come di primo acchito potrebbe sembrare, infatti racconta un viaggio che l’adulto compie nel mondo dell’infanzia, perciò presente e passato si fondono e quest’ultimo ne esce fortemente condizionato dagli astratti furori e dalla consapevolezza dell’umanità offesa. Insomma possiamo parlare della bergsoniana durata o del tempo misto di Italo Svevo; non solo, ma il tempo, proprio perché lo scrittore trasferisce il male storico a livello esistenziale, acquista un carattere mitico-simbolico dove pienamente si rivela la matrice decadente della formazione di Vittorini. La stessa cosa può dirsi della dimensione spaziale: la Sicilia, come sostiene lo stesso autore nel corsivo finale dell ’epilogo  ”è solo per avventura Sicilia”, potrebbe essere qualsiasi luogo, emblema mitico, sede dolorante di umanità offesa”, al di là e al di fuori di qualsiasi connotazione realistica e documentaria

E’chiaro che la trasposizione mitico-simbolica non riguarda esclusivamente il cronotopo, ma investe anche, come in parte si è già rilevato nell’esposizione dell’intreccio, personaggi ed eventi, e infine anche la forma che spesso assume un carattere lirico, anzi di prosa lirica in cui si ravvisa il chiaro influsso solariano.                                                                                                                           

Per concludere, Vittorini, pur proponendo nella sua Conversazione una situazione storica ben precisa, è attuale anche oggi, poiché dà una valenza esistenziale che trascende dalle contingenze immediate e comunica un messaggio assoluto, universale: lo sdegno per il mondo perduto, per l’umanità offesa dalla guerra, dai miti aggressivi e   dall’ oppressione conseguente.

                                                                                               FRANCESCA LUZZIO