Le teste di Moro

Monologo di Francesco Billeci

(Traduzione di Francesco Camagna)

Elena: Nel mio quartiere hanno inventato mille versioni di questa vicenda, ma nessuno, e dico nessuno, ha cercato una giustificazione a questa triste storia. Ora, non voglio che mi difendiate o che la gente pianga per me. Quello che feci, fu frutto di una decisione presa dopo avere provato per giorni un dolore pungente come una spina di palma, che mi fece scorrere il sangue a fiotti, nascosto dietro un falso sorriso.

Il mio nome è Elena, sono nata e vissuta a Palermo, ho trent’anni. La mia è una storia semplice, una storia come tutte le altre. Mio padre e mia madre si sposarono grandicelli e Dio, o forse Santa Rosalia, gli volle far dono di una figlia malgrado non fossero più giovanissimi. Crebbi spensierata nella mia casa, anche perché , mentre a  Palermo si moriva di fame a causa di una carestia, noi non ce la passavamo male. I miei facevano i “funnacari” e gestivano una locanda.

Non mi dite che non sapete cosa siano i “ funnacari”. I “funnacari” erano coloro che , accanto alla locanda, avevano una stalla. Così , quando giungevano forestieri con cavalli, li ospitavano dandogli un alloggio anche per gli animali. Conducevano i cavalli nella stalla, dove gli davano da bere e da mangiare e cosi facevano anche con i padroni!

Mio  padre li faceva sedere  e cercava, dopo, di intuire se i forestieri avessero o meno i soldi per pagare; quindi, si rivolgeva a mia madre e le ordinava cosa cuocere.  Ella cucinava fave, lenticchie, cavoletti e patate per quelli che a mio padre erano sembrati poveri ; carne di maiale, di pecora, trippa o “stigghiole” per quelli che, agli occhi del mio genitore, erano apparsi benestanti. Io divenni grande fra i fornelli, appiccicata sempre alla veste di mia madre, che mi elargiva costantemente i suoi insegnamenti di cucina e le sue lezioni di vita.

Mi diceva spesso: “Figlia mia, sei troppo ingenua, ti devi fare più smaliziata, le persone , se non stai attenta, ti prendono in giro. Per non parlare dei maschi : quelli sono delle vere bestie. Ti accarezzano, ti fanno sentire bella e importante, poi, quando ti sei concessa, ti mettono da parte e non ti guardano più!

Io ascoltavo attenta, a bocca aperta, le sue parole; certe volte, mio padre si metteva in mezzo e replicava: “ Moglie mia, però,  non puoi fare di tutta l’erba un fascio, i maschi non siamo tutti uguali, vorresti dire che io non ti faccio sentire importante?”.

Guardavo le espressioni dei loro volti e provavo un’immensa felicità. Oh, come avrei voluto conoscere un uomo, capace di amare la propria donna,come mio padre!

Intanto, gli anni passavano, io diventavo sempre più grande e loro sempre più vecchi. Mia madre cominciava a preoccuparsi per il fatto che non avessi ancora trovato l’uomo giusto, e mi ripeteva , ogni tanto : “Figlia mia, ma quando ti devi fare fidanzata? Noi siamo ormai vecchi, non ci aspetta una lunga vita, io non voglio che resti sola.  Proprio nessuno ti piace in questo quartiere?”.

Mio padre , buonanima, la pensava allo stesso modo e mi diceva : “ Sopra i tavolini non ci si mette la bellezza, ma il pane, l’amore non toglie la fame,  il pane invece sì.

Mia madre gli dava ragione e rincarava la dose; “ C’è il figlio del calzolaio, o del macellaio o il nipote del muratore”

“Ma sei pazza?” , le rispondevo, il primo è brutto come una coltellata, il secondo è balbuziente, l’ultimo è zoppo.”.

Non trascorse molto tempo e i miei , uno dopo l’altro, a breve distanza di tempo, accuditi amorevolmente dalla sottoscritta fino alla fine dei loro giorni, volarono in cielo.

Rimasi sola  con la locanda da portare avanti. Certo, non la potevo chiudere : come avrei fatto a campare?

Allora, mi misi in cerca di qualcuno che mi desse una mano, trovai un giovane che si chiamava “Pippineddu”, figlio di una vicina, e lo presi alle mie dipendenze. Vestita di nero per onorare il lutto per la morte dei miei genitori, faticavo dalla mattina alla sera e , spesso, ero tanto stanca che mi coricavo senza mangiare. La gente del quartiere mi rispettava, i maschi, giovani e meno giovani, mi facevano la corte tutti quanti. Ero, per loro, un buon partito, una donna da sposare, con cui si sarebbero sistemati, e poi ero anche intatta  e pura come mi aveva messo al mondo mia madre.

“Vattene, vedi dove andare!” ,rispondevo a chi  aveva  avuto il coraggio di farsi avanti e proporsi come marito.

Poi, all’improvviso una sera, si presentò nella locanda un uomo che mi sembrò una specie di apparizione:  faceva girare la testa soltanto a guardargli gli occhi verdi  come il mare. Chiesi a Pippineddu chi fosse. Mi rispose “  Quest’uomo ,e gli altri che sono insieme a lui, sono  tutti Mori d’Oriente.” Scoppiai a ridere e gli dissi :

“Mori? A me  fa morire, questo tipo, per quanto è bello!”.

Mentre mangiava, il  moro si accorse che lo stavo puntando, insistentemente, con lo sguardo e mi guardò a sua volta negli occhi.  Allora, abbassai lo sguardo e feci finta di niente. Non potevo mostrarmi come una qualunque, ero una femmina seria e illibata, l’onore non l’avrei concesso al primo arrivato che ci provava.

Presto, mi accorsi che non v’era sera che egli non venisse a mangiare alla locanda. Per dispetto, io gli mandavo Pippineddu a prendere le ordinazioni e portare il conto. Poi, una sera, mentre rimescolavo le fave, lo vidi entrare in cucina e avvicinarsi a me, “Qui dentro non sono ammessi gli estranei”, gli dissi con un tono di voce basso.  “Chiedo scusa” , mi rispose cordiale e gentile, “ma penso che, dopo una settimana che vengo in questa locanda, sia giusto presentarci. Allungai lamano e per tutta risposta lui la prese e la baciò.

Poi, mi disse che il suo nome era Giovanni. “Io sono Elena, gli dissi, con un filo di voce mentre sentivo un brivido attraversare la mia pelle”. “ Elena come Elena di Troia,” mi rispose. Poi, iniziò a farmi complimenti  a più non posso. Mi disse che i miei occhi erano belli come il mare, il mio viso era come quello di un angelo, i miei capelli come l’oro. Continuò per un po’, fino a quando lo interruppi con una scusa. Certo, tutti questi complimenti mi facevano piacere, era un bell’uomo davvero,ma non volevo sbilanciarmi, ero una donna siciliana di onore e sentimento. Credeva che con qualche lusinga e paragonandomi ad Elena di Troia, mi avrebbe conquistata facilmente?

Dopo quel giorno, comunque, crebbe la confidenza fra di noi. Ogni volta che lo sentivo entrare, provavo un senso di felicità. Abbandonavo tutto quello che avevo davanti e correvo da lui, e , tra una portata e l’altra,  scambiavamo qualche parola. Mi rendevo conto che mi piaceva e che anche lui si sentiva attratto da me. Ogni sera, mi portava una cosa diversa avvolta in una stoffa orientale. Erano collane, bracciali, mantelli, oggetti preziosi e non c’era volta quando entrava o usciva che non mi baciasse la mano. Perchè era così gentile con me? . Era evidente che gli piacevo e voleva stare con me.

Almeno così mi parve all’inizio, poi le cose andarono come andarono!

Ma continuo il racconto: passavano i giorni , io ero sempre più cotta di lui, cominciavano a notarlo anche gli altri, tanto che nel quartiere le malelingue dicevano che  ci eravamo messi insieme. La sera, spesso, uscivamo in strada a passeggiare fino a notte fonda. Quando pioveva e si sentivano  i tuoni,ci fermavamo sotto una finestra a ripararci, mi stringevo a lui che si toglieva il mantello e me lo metteva sulle spalle. Le sue grandi mani, le sue forti braccia, mi facevano sentire protetta. Avvertivo il suo calore che si mischiava col mio desiderio e mi faceva passare la paura dei lampi e dei tuoni. Una sera ,mi dedicò dei versi che aveva scritto e, tirando fuori dalla tasca un anello, mi disse: “ Voglio essere il tuo uomo per sempre, questo è per te.” Era un diamante che a qualunque donna avrebbe fatto girare la testa. Stavo per cedere e confessargli che anch’io lo amavo, ma poi presi un po’ fiato e gli dissi che avevo bisogno di tempo per riflettere, in fondo no sapevo niente di lui. Ripensavo, ancora una volta, alle parole di mia madre e , dentro la mia testa, mi chiedevo: “ E se poi mi lascia e scompare?”. Una donna disonorata è come un cane con la rogna, nessuno si avvicina a lei, nessuno la guarda più, la tengono a distanza come un’appestata. E’ come se fosse condannata a morte. Ma , si sa, spesso il sentimento vince la ragione e la paglia non può stare accanto al  fuoco, che prima o poi succede che svampa!

Una sera, alla locanda, dopo ch’eravamo rimasti soli, perché tutti gli altri clienti erano andati via, mentre parlavamo, non riuscii a trattenere l’impulso di baciarlo. Gli misi le mani sul collo e assaggiai le sue morbide labbra. Egli non esitò a rispondere al mio gesto,  le sue mani cominciarono a toccarmi e ad accarezzarmi tutto il corpo. Poi, improvvisamente, si fermò  e successe una cosa che mi lasciò allibita. Cominciò a parlare con un tono sommesso e mi disse che non poteva continuare con me se prima non mi avesse raccontato una cosa che non poteva tenermi nascosta,  perché altrimenti si sarebbe sentito in colpa. Voleva essere onesto e sincero fino in fondo. Lo implorai di parlare, di non tenermi sulle spine. Dopo tanti giri di parole chiuse gli occhi e mi confessò che era sposato e aveva una famiglia. Fu come se mi avessero sparato un colpo di fucile alle spalle, rimasi senza prole per un po’, poi prese il sopravvento la rabbia e gli dissi di andare via. Non si fece vedere per due giorni, poi una mattina Pippineddu, che era  sempre lui ad  aprire la locanda, mi venne a chiamare ;” Corri”, mi disse, “vieni a vedere”. Rimasi senza fiato quando vidi con i miei occhi che la locanda era piena di rose rosse  ovunque, sui tavolini, per terra, ogni angolo era come infestato dalle rose. Non sapevo cosa pensare, poi lo vidi uscire dalla stalla e venire verso di me: “L’altro ieri non mi hai dato il tempo di finire; è vero, sono sposato e ho due figli, ma mia moglie l’ho lasciata da tempo, il mio cuore ti appartiene, voglio stare con te, voglio passare il resto della mia vita con te, qui nella locanda”.

Lacrime di gioia cominciarono a scendere nelle mie guance, ma decisi di ricompormi, di mettere un freno alle mie emozioni  e risposi, di nuovo, che ci dovevo pensare. Ma , la sera, dopo aver chiuso la locanda, mi recai nella sua stanza. Sorpreso, mi fece entrare rivolgendomi il suo luminoso sguardo. Gli dissi, per mettere in chiaro subito le cose: “ Io sono siciliana, sono all’antica, se mi devi prendere in giro, pensaci bene , perché ti sto dando l’amore e l’onore e se mi deludi, solo il sangue potrà lavare l’offesa e cancellare il disonore”. Sorrise e mi disse che mi amava, comincio a baciarmi appassionatamente e, prendendomi in braccio, mi condusse nel letto. Quel che accadde lo potete immaginare. Per me, fu la prima volta, la più bella notte della mia vita. In quei momenti scomparivano angosce e pensieri, l’amore valeva più d’ogni altra cosa. “ Ti amo”, mi disse mille volte, facendomi sentire felice e finalmente donna.

Il primo mese le cose andarono bene, amore e carezze non mancavano mai, egli era sempre pieno di gentilezza e passione. Sembravamo una  vera coppia di sposi felici. La sera, quando andavamo a letto, parlavamo di tanti progetti da realizzare insieme, perfino quello di avere dei figli. E poi, non potrò mai dimenticare quanto era bravo in cucina, sapeva proporre ricette nuove, preparare pietanze prelibate che nessuno aveva mai assaggiato prima. Era pazzo per il basilico. Diceva che profumava d’amore, lo piantava nei vasi ed era felice di andare, di tanto in tanto, a sentirne l’odore.

Ma, ahimè, le cose non continuarono a lungo in questo modo,  un giorno accadde qualcosa che cambiò tutto. Quel giorno, mi resi conto che la sua faccia non aveva il solito aspetto, la solita espressione:  mi appariva serio, triste, pensieroso. “Giovanni , che succede?”. Gli chiesi, ansiosa e preoccupata, Non mi rispose, restò in silenzio, poi dopo aver fatto l’amore, trovò il coraggio di parlare; “ Ho saputo che mio figlio sta molto male, ha una brutta malattia, purtroppo devo tornare nel mio Paese. In quel momento, mi sentii come mi fosse caduto in testa il tetto della locanda. Cattivi pensieri attraversavano la mia mente; “ Mi vuoi lasciare, questa è per caso una scusa per andartene e tornare da tua moglie?”. Ma lui era bravo a giocare le sue carte; “ No, amore mio, voglio stare con te, credimi, non ti voglio ingannare. Voglio solo andare a vedere come sta realmente mio figlio, sono in ansia per lui.  Vado per un po’, giusto il tempo di rendermi conto della situazione, vedere cosa posso fare per mio figlio, e poi torno da te. Se non mi credi, vieni anche tu.”.

Le sue parole cancellarono il mio tormento, mi convinsero della sua sincerità.  Non sarei mai potuta partire con lui, mi dovevo occupare della locanda, Pippineddu da solo non sarebbe stato in grado di portarla avanti. Allora gli diedi il consenso di partire  e lui mi promise che sarebbe tornato alla locanda nel più breve tempo possibile.

Ma, in questa vita, come dice un proverbio, niente si fa che niente si sa.

La sera dopo, mentre riordinavo la sua stanza, mi misi a piegare un paio di pantaloni posati in una sedia.  Nel piegarli, li capovolsi e da una delle tasche cadde a terra un anello. Pensai che fosse per me e mi sentii felice, ma lui il giorno successivo non fece alcun riferimento ad un anello nei suoi discorsi. Credetti che volesse farmi una sorpresa e continuai a fare finta di nulla, volevo vedere dove andava a parare.  Poi, accadde che, mentre innaffiava il basilico, dalla finestra,senza farmi vedere, lo sentii parlare con un amico, Gli diceva che il suo tempo a Palermo era scaduto e che non vedeva l’ora di tornare nel suo Paese e riabbracciare sua moglie e i suoi figli.

Sconsolata, mi rivolsi alla maga Marietta. Mi recai da lei. Mi fece le carte, mi lesse la mano. La cosa strana fu che, alla fine, non volle essere pagata.

Non fu bello, però, quello che mi disse. Vedeva sangue, vedeva dolore, sentiva odore di basilico intriso di pianto. Francamente, non capivo. Mi diede una polverina da mettere sotto il cucino del moro  mentre dormiva.  Lo feci. Ma, si sa, chi crede alla magia, butta soldi al vento senza concludere nulla. Lui non era più lo stesso, stava quasi sempre silenzioso, non mi corteggiava più. La sera, dopo aver finito di mangiare, usciva con una scusa e non tornava prima che fosse mattina. Io, oltre a gestire la locanda, continuavo a fare il mio dovere di moglie abusiva:  gli lavavo i vestiti, stiravo, gli preparavo da mangiare, mi mostravo sempre gentile e affettuosa. Ma, una mattina, mi accorsi che il suo mantello odorava di femmina. Capii di averlo perso per sempre. Ecco perché certe sere diceva che era stanco e si rifiutava di fare l’amore.

Amore? Mi domandavo che fine avesse fatto l’amore che aveva detto di provare per me, mi sentivo una stupida per essermi fidata, mi sentivo sporca perché gli avevo regalato la mia purezza, la mia innocenza.

Mia madre aveva ragione, ero stata un’ingenua, avrei dovuto essere più smaliziata. E ora? Ora, restavo sola e disonorata dentro la mia casa, nessuno mi avrebbe più guardata, tutti conoscevano la nostra storia, non avrei più avuto pretendenti o corteggiatori.

Ero inconsolabile, ma non volevo in alcun modo arrendermi al destino, se non era mio, non doveva essere  di nessun altra. E allora, presi una decisione a malincuore.  Gli proposi una cena speciale, prima  della sua partenza: “ Amore mio, stasera ti voglio tutto per me, domani tu parti per tornare da tua moglie ed io ti preparato  delle vere prelibatezze che renderanno la nostra cena indimenticabile. Ci sedemmo a tavola sorridenti , lui mangiava con piacere, gli versai ripetutamente vino nel bicchiere fino a farlo ubriacare. Ci alzammo, lui rideva e barcollava, io lo portai nel letto,lo spogliai e facemmo l’amore per l’ultima volta.

Ma qualcosa, mentre mi baciava, frullava nella mia testa. Mi sentivo fredda nel cuore, non provavo più le emozioni  e  le sensazioni che avevano caratterizzato la nostra relazione, non sentivo più la passione che, come una calda luce, si era accesa nel mio cuore durante il nostro breve periodo di felicità.

Quell’uomo che avevo accanto non rappresentava più nulla per me, sentivo per lui solo disprezzo e odio.

Ad un certo punto, il moro , voltandosi dall’altra parte, si addormentò.  Allora, senza far rumore, mi alzai dal letto e scesi nella locanda a prendere un coltello affilato e una coperta, poi tornai nella sua camera e lo baciai per l’ultima volta. Dormiva di un sonno profondo per il troppo vino bevuto. Trattenni il respiro e, con il cuore che mi batteva a mille all’ora, gli tagliai la gola. Morì nel sonno senza accorgersi di nulla, il sangue mi sporcò le mani e mi sentii rinascere.

Poi, gli tagliai la testa, scavai nella parte superiore per piantarvi il basilico che lui aveva tanto amato. Vi chiederete, di sicuro, cosa ne abbia fatto la sottoscritta del corpo. Lo caricai legato sul mulo, di notte con l’aiuto di Pippineddu, e lo seppellii in un terreno assai distante dalla mia locanda.

Ma, ora non vi voglio più annoiare con questa storia, piuttosto avvicinatevi, chiudete gli occhi e odorate questo basilico, lo sentite? Profuma d’amore, dell’amore amaro della testa di moro , che pagò con il sangue il tradimento, con la vita il mio disonore, lasciandomi vuota d’amore e colma dell’odore del basilico.

FINE

Le teste di Moro

Monologo di Francesco Billeci

(Versione in dialetto siciliano)

Elena: ‘Nta lu me quartieri hannu ammintatu milli virsioni ri sta vicenna, ma nuddu, e dicu nuddu, ha circatu a sta tristi storia na giustificazioni, ora nun vogghiu ca m’addifinniti e mancu ca chinciti pì mìa. Ma chiddu chi fici, fu fruttu ri na dicisioni dulurusa ca pì tri ghiorna, mi puncìa lu cori comu na spina ri parma, e mi facìa scricchìari sangu a frusciu ammucciatu da lu me farsu surrisu.  Mi chiamu Elena, sugnu ri ‘nPalermu è haiu trent’anni, la me storia è na storia semprici, na storia comu tutti l’avutri. Me patri e me matri si maritaru grannuzzi, e Diu o forsi Santa Rusilia li vosi primiari mannannucci propriu e sulu a mìa. Criscivi spinzirata ‘nta la me casa, anchi picchì, mentri la fami e la caristìa ‘mPalermu era assai diffusa, iddi nun sa passavanu tantu scarsa. Facianu i funnacari e purtavanu avanti na  lucanna! Nun mi diciti ca nun sapiti ‘nsoccu sunnu i funnacari? I funnacari eranu chiddi ca tinianu na lucanna cu la stadda rallatu, e quannu arrivavanu i furistieri cu li cavaddi, li ospitavanu rannucci locu. Purtavanu li cavaddi ‘nta la stadda dunni ci ravanu a biviri e manciari, e la stessa cosa facianu cu li patruna! Me patri dopu ca li facìa assittari circava ri capiri si li furistieri tinianu sordi pì paari, poi rava ordini a me matri ricenucci ‘nsoccu avìa a cociri. Me matri cuscìa favi, linticchi, cavuliceddi e patati pi chiddi chiu puvureddi e carni ri porcu, ri pecura, trippa o stigghiola pi chiddi ca sa passavanu bona. Iu criscivi tra li furnedda attaccata sempri a la vesta ri me matri, ca mi facìa maestra ri cucina e ri vita. Mi dicìa spissu: “Figghia mìa, tu si troppu ‘ngenua, t’ammalignari, li cristiani si nun stai attenta ti pigghianu pì fissa, pi nun parrari di li masculi, chiddi su la piggiori bestia umana. T’alliscianu e ti fannu sentiri bedda e ‘mpurtanti, poi quannu ci duni lu ciuri, ti mettinu ri latu e nun ti vardanu chiu! Cu la vucca aperta attintava sempri li so paroli, certi voti me patri s’ammiscava e ci dicìa: “Muggheri mìa, però, ri tutta l’erva nun poi fari un fasciu, li masculi nun semu tutti li stessi! Forsi iu nun ti fazzu sentiri ‘mpurtanti!”  Li taliava filici e pinsava ca puru iu un jornu vulìa canusciri n’omu ca mi vulìa beni comu a me patri. Ntantu l’anni passavanu iu addivintava chiu granni e iddi sempri chiu vecchi. Me matri prioccupata ogni tantu mi dicìa “Figghia mìa, ma quannu ti ci a fari zita? Nuatri semu anziani e nun avemu vita longa, iu nun vogghiu c’arresti sula, ma propriu  nuddu ti piaci nta stu quartieri?” Me patri. Bon’arma mi dicìa: “ncapu lu tavulinu nun si ci mettinu li biddizzi, ma lu pani, l’amuri nun ti leva lu pitittu, lu pani sì!”. Me matri ci rava raggiuni e battìa nta lu discursu: “Figghia mia c’è lu figghiu di lu scarpareddu, o di lu carnizzeri, o lu niputi di ri lu muraturi”. “Ma si foddi? – ci arrispunnìa – lu primu è l’ariu na botta di cuteddu, lu secunnu è checcu, e lu terzu è zoppu!” . Assai tempu nun passau ca me patri e me matri, e precisu, arinziati ri mìa finu all’urtimu, vularu ‘nta lu cielu cilesti. Arristavi sula cu la lucanna ‘ncapu li spaddi di purtari avanti. Certu nun la putìa chiuiri. Comu avìa a campari? E allura circavi e pigghiavi un picciutteddu, Pippinu, figghiu ri na vicina ri casa, pì farimi aiutari. Vistuta ri nivuru fatiava ri la matina finu a la sira, tantu ca certi siri era tanta stanca ca m’addumiscìa senza manciari. Li cristiani nta lu quartieri mi rispittavanu tutti, li masculi sia granni chi nichi, mi facianu la corti. P’iddi eru na fimmina ri maritari, dunni si putianu sistimari, e poi pricisu iu eru ‘ntatta e pura, comu me matri m’avia fattu. “Va viri unna ghiri” ci dicìa a cu si proponìa pì maritu. Ntantu na sira tra tanti furistieri trasìa nta la me lucanna n’omu ca mi fici firriari la testa a sulu taliaricci ddi beddi occhi virdi comu lu mari.  Chiossai lu taliava, chiossai mi sbattia lu cori. Addumannavi a Pippineddu cu era. Mi rissi “chistu, ‘nsemmula cu chiddi rallatu fa parti di li mori d’orienti”.

Mi misi a ririri e ci rissi, mori? Chissu a mìa fa morir iri quantu è beddu. Iddu mentri manciava s’accorgìa ca lu puntava comu un cunugghiu e si misi a ririri. Allura calavi l’occhi e fici finta di nenti. Certu nun putìa faricci capiri ca era una qualunque, iu fimmina seria e illibata era, e l’onuri  nun lu rava a lu primu chi arrivava, o ca ci pruvava. Li cunsigghi ri me matri eranu ancora frischi ‘nta la me menti… Prestu m’accorgivi ca lu moro nun c’era na sira ca nun vinìa a manciari ‘nta la me lucanna. Sfriggiusa iu, ci mannava a Pippineddu pì pigghiari l’ordinazioni e purtarici lu cuntu. Poi na sira mentri arriminava li favi,  lu vitti avvicinari a mìa dunni cucìa. “Ca dintra nun po trasiri” ci rissi  a vuci vascìa. “Addumannu pirdunu” – mi rissi cu vuci curdiali e gintili – “ma pensu ca dopu na simana ca vaiu e vegnu ri sta lucanna, è giustu ca ni prisintamu”. Allungavi la manu e iddu ‘nta du secunni mi la vasau ricennumi ca si chiamava Giovanni. “Iu mi chiamu Elena”, ci rissi mentri ‘nta du mumentu li rizzi di friddu assuppavanu la me peddi, e nun mi lassavanu pì nenti. “Elena? Comu Elena di Troia?” M’arrispunniu. Poi accuminciau a farimi cumplimenti, mi dicìa, ca li me occhi eranu beddi comu lu mari, li me capiddi eranu comu l’oru, la me facci era fina comu n’anciledda. Cuntinuao finu a quannu  lu firmavi di parrari cu na calunìa. Certu mi facianu piaciri tutti sti cumplimenti, puru iddu era beddu, ma iu cuntinuava a non sbilanciarimi, iu fimmina siciliana cu onuri e sintimenti era. Chi ci parìa ca cu du vrocculi, e paragunannumi a la principessa di Troia m’accurdava comu nenti?

Dopu du jornu pigghiammu cunfirenza, ogni vota ca lu virìa trasiri di la porta, mi sintìa lu cori filici. Lassava tuttu chiddu c’avìa ravanzi e currìa pi faricci preu. Lu sirvìa, e tra un piattu e n’avutru scanciavamu quarchi parola. Mi rinnìa contu ca mi piacìa, e puru a iddu cì piacìa. Ogni sira mi purtava na cosa diversa ammugghiata nta na stoffa d’orienti.  Mi purtava collani, bracciali, manteddi, cosi pregiati e nun c’era vota ca quannu trasìa e sinni ìa mi vasava la manu. Picchì era gintili? Mu ripetu arrè, picchì ci piacìa e vulìa arristari cu mìa! Almenu chistu pinzava all’inziu, poi li cosi eru comu eru! Ma cuntinuo lu me cuntu, scurrianu li jorna e iu eru sempri chiu cotta d’iddu, nto quartieri accuminciau a firriari na vuci ca eramu ziti. A sira spissu nisciamu ‘nsemmulla a passiari finu a notti funna, quannu chiuvìa e truniava, ni firmamvamu sutta i finistruna, mi strincìa a iddu, si livava u manteddu e mi lu mittìa ncapu i spaddi, li so granni manu mi facianu sentiri prutetta, lu so caluri s’ammiscava cu lu me disìu, e mi facìa passari lu scantu di li lampi e di li trona. Na sira mentri passiavamu mi dedicau na puisìa e niscennu da la sacchetta n’aneddu, mi rissi: “vogghiu essiri lu to omu pì sempri, chistu è pì tìa”.  Era un diamanti ca a quarsiasi fimmina ci avissi fattu firriari  la testa. Pun secunnu stava pì ceriri, ma poi tirannu  n’anticchia ciatu ci rissi ca mi sirvìa chiu tempu, ‘nfunnu nun sapìa nenti d’iddu.  Ripinzava ancora na vota a di paroli di me matri e ‘nta la me testa m’addumannava: “Eh si poi mi lassa e scumpari? Iu arresto fregata pì sempri! Na fimmina disunorata è comu un cani cu la rugna, nuddu l’avvicina, nuddu la talìa chiu.  La tennu a distanza comu s’avissi la pesti, comu si fussi cunnannata a morti”. Ma si sà certi vuti lu sintimentu che nasci da lu cori vinci lu vuliri  di la menti, e la pagghia nun po stari assai allatu o focu, prima o poi svampa pì sempri!  Na sira a la lucanna, dopu c’aviamu arristati suli, mentri parravamu vicini vicini, mi vinni la stizza di vasallu. Ci misi li manu o cuddu e sazzavi li so labbra. Nun mancau a iddu di currispunnimi, li so manu accuminciaru a scinniri e tuccarimi, ma poi successi na cosa ca mi lassau allulluta.  Cu na facci seria, mi rissi ca m’avìa a parrari, n’assittamu sori sori e accumincìau a parrari. Mi rissi ca nun putìa cuntinuari cu mìa, si prima nun mi dicìa na virità ca tinìa nta lu cori comu na spina appizzata. Parra, ci dicìa, nun mi fari stari ‘mpinzeri, dopo tantu giri ri paroli, si chiuiu l’occhi e mi cunfissau ca tinìa na famigghia.

 Pì mìa fu comu na scupittata nta li spaddi, arristavi ‘nsilenziu pì quarchi secunnu, poi la raggìa pigghiau cumannu e ci rissi di nesciri da la me lucanna. Cu l’occhi ‘nterra si susìu dispiaciutu e m’addumannau pirdunu.  Nun lu vitti pì du jorna, poi na matina Pippineddu, ca rapìa a lucanna prima ri mìa, mi vinni a tuppuliari, curri mi rissi, veni a talìa. Quannu trasivi arristavi senza ciatu, a lucanna era china di rosi russi unnieghè, nte tavulina, nterra, ogni agnuni era ‘nfistatu di rosi.

Nun sapìa ‘nsoccu pinzari, poi lu vitti nesciri da la stadda e avvicinarisi a mìa: “L’atru aieri nun mi rasti tempu di finiri la me cunfissioni, si sugnu maritatu cu du figghi, ma a me muggheri  la lassavi da tantu tempu, lu me cori è tou, iu vogghiu stari cu tìa, vogghiu passari tutta la me vita cu tìa, cà a la lucanna”.

Lu chiantu ri cuntintizza accuminciau a scinniri da la me facci, ma mi stesi u stessu frinata, ricennucci ca ci avìa a pinzari.  Poi la sira, quannu chiuivi la lucanna mi fici accumpagnari di Pippineddu a lu so locu. Affacciau du finistruni tuttu sorpresu e mi fici trasiri cu l’occhi chini ri luci. Ci rissi: “Iu sugnu siciliana all’antica, si ma pigghiari pì fissa pensaci ora, picchì ti staiu rannu l’amuri e l’onuri, e si mi deludi sulu lu sangu cancilla lu disunuri”. Si misi a riri e mi rissi cà m’amava, accuminciau a vasarimi appassionatamenti e pigghiannumi  mrazza mi purtau nta lu so lettu. Chiddu chi successi lu sapiti o lu putiti ‘mmagginari. Fu la prima vota pi mìa, la chiu bedda notti ca passavi ‘nta la me vita. Nta du mumentu scumparianu lastimi e pinzeri, l’amuri pigghiava e valìa chiu r’ogni cosa.  “Ti amu” mi rissi milli voti, mi sintìa filici, finarmenti mi sintìa ronna. 

U primu misi li cosi ianu boni, amuri e carizzi nun m’ammancavanu mai, iddu era sempre presenti, sia dintra ca a la lucanna, e tuttu chistu a mìa nun mi dispiacìa. Pariamu na famigghia vera, na coppia ri spusini filici. Curcati la sira, eranu tanti li pruggetti ca faciamu, parravamu pirsunu ri fari figghi assai. E poi nun pozzu scurdari quantu era bravo a cociri, sapìa priparari ricetti e pietanzi novi, pietanzi ca nuddu canuscìa, e niscìa foddi pì lu ciavuri du basaricò. Dicìa ca lu basaricò era ciavuru d’amuri, tantu ca lu chiantava nta li rasti e priatu l’abbivirava e lu ciarava ogni ‘nticchia. Ma li cosi nun cuntinuaru pì comu ‘mmagginava, quarchi cosa accuminciava a canciari. Un jornu vitti ca tinìa na facci seria, pinzirusa e ‘ncullurata. “Giovanni, chi succeri?” ci rissi  priuccupata. Stava nsilenziu e nu n m’arrispunnìa, poi dopu ca ficimu l’amuri mi rissi: “Mi rissiru ca me figghiu avì na malatìa tinta, prutroppu a turnari a lu me paisi”. Na du mumentu mi sintivi cariri lu tettu nta la testa. Ciumi ri pinzeri firriavanu nta lu me cori. “Mi voi lassari, chista per casu è na calunìa pi ghiritinni e turnari ni to muggheri?”. “No, amuri miu, iu cu tìa voghhiu stari, cririmi, iu nun ti vogghiu ‘ngannari. Vogghiu sulu sapiri comu sta me figghiu e tornu arrè ni tìa. Ma si nun mi criri venicci puru tu cu mìa.” Li so paroli mi livaru lu turmentu e mi cunvinceru ca era sinceru. Certu ci putìa iri nsemmula, ma comu facìa cu la lucanna? Pippineddu, sulu,  nun era ‘ngradu ri purtarla avanti. E allura ci retti lu me cunsensu cu la prumissa di riturnari arrè ni mia. Ma nta la vita si sà, comu dici tu cuscienza mìa, nenti si dici, ca nenti si sapi. L’indomani a sira, mentri sistimava li so cavusi pusati nta la seggia, truvavi n’aneddu ntali sacchetti. Filici pinzavi ca era pi mìa, ma iddu nun ni facìa discursu. Fici finta di nenti, vulìa viriri dunni arrivava, poi mentri abbiviarava lu basaricò, ammuccioni, nta lu finistruni, lu sintivi parrari cu n’amicu so. Ci dicìa ca lu so tempu ‘mPalermu avìa finutu e can un virìa l’ura di turnari ni so muggheri e li so figghi.  Scunsulata, ivi a truvari Marietta la maara. Mi fici fari li carti e leggiri la manu. Cosa strana fu ca quannu allistiu nun vosi essiri paata.

Nun fu bello però chiddu ca mi rissi. Virìa sangu, virìa duluri, virìa ciavuru ri basaricò ammargiatu di chiantu. Francamenti nun capìa chiddu ca mi dicìa, mi retti na porverina d’amuri di mettiri sutta u cuscinu quannu iddu durmìa, e accussi fici. Ma si sa cu criri a li maari ecca picciuli o ventu e nun cuncrui nenti. Iddu nun era chiu lu stissu, stava sempri ‘nsilenziu, nun mi corteggiava chiu, a sira dopu c’allistìa di manciari niscìa cu na scusa, e quannu turnava era già matinu. Iu, oltri a purtari avanti la lucanna, cuntinuava a fari lu me duviri comun a muggheri abusiva, ci lavava i robbi, stirava, priparava di manciari e mi mustrava sempri gintili e affittuosa. Ma na matina na modda scattau ‘nta la me menti,  lu so manteddu facìa ciavuru di fimmina.  Fù na du mumentu ca capivi ca l’avìa persu pì sempri.  Eccu picchì certi siri nun s’avvicinava a mìa, dicennumi ca era stancu, eccu picchì si rifiutava di fari amuri.

Amuri? M’addumannava chi fini fici l’amuri ca pruvava pì mia, mi sintìa lorda nta lu cori p’avirimi fidatu, p’aviricci regalatu la me purezza, la me ‘nnuccenza. Me matria avìa raggiuni, nun m’avìa a fidari. E ora? Ora arristava sula e disunurata dintra la me casa, nuddu mi taliava chiu, tutti sapianu di la nosta storia, quali masculu foddi si putìa fari avanti?.  Ma iu nun mi cunzulava e nun m’arrinnìa a stu destinu, si nun era miu, ri nuddu avìa a essiri.  E allura pigghiavi na dicisioni a malincori, ci rissi: “Amuri miu, stasira ti vogghiu tuttu pì mia, dumani tu parti pi turnari ni to muggheri, e iu ti priparavi na cena spiciali. Surridenti n’assittamu a manciari, e adaciu adaciu  lu fici mriacari. Rirennu lu purtavi nta lu lettu, lu spugghiavi e lu fici curcari. “Veni ca” mi dicìa allungannu i manu, nun mancau a mìa d’accuntintallu. Ma quarchi cosa mentri mi vasava firriava nta la me menti. Mi sintìa fridda nta lu cori, nun pruvava chiu li stessi emuzioni. D’omu rallatu nun significava chiu nenti, p’iddu sintìa sulu disprezzu e odiu. Poi si girau d’addabbanna e s’addumisciu, e iu adaciu adaciu scinnivi da lu lettu.   

Scinnivi a la lucanna a pigghiari un cuteddu affilatu e na manta, poi m’avvicinavi a iddu e lu vasavi pì l’urtima vota. Durmìa ‘nsonnu prufunnu  pì lu troppu vinu ca s’avìa vivutu. Tiravi ciatu e ci tagghiavi  i carnarozza. Muriu ‘nto sonnu senza ca si n’accorgiu, lu sangu chiappau li me manu e iu mi sintivi rinata. Poi ci tagghiavi a testa, e la scrafuniavi di ‘ncapu pì chiantarici lu basaricò ca iddu avìa assai amatu. V’addumannati chi ni fici di lu corpu?  Lu carricai attaccatu ‘nta lu mulu ri notti cu l’aiutu ri Pippineddu, e lu vruricavi nto tirrenu assai luntanu. Ma ora nun vi vogghiu chiu annuiari cu sta vicenna,  piuttostu  avvicinativi a mìa, chiuitivi l’occhi e ciarati stu basaricò, lu sentiti? Fa ciavuru d’anuri, fa ciavuru di l’amuri amaru di la testa di Moru,

ca pagau cu lu sangu lu trarimentu, cu la vita lu me disunuri, lassannumi vacanti d’amuri e di basaricò china di  prufumu.                                                                                                                                                                                                                            

Fine