A TU X TU CON …..Gabriele Di Sazio. Quando la Settima Arte racconta chi siamo
Ha lasciato la Sicilia a 19 anni diretto a Londra dove ha studiato regia al London College of Communication. Nel 2017 un altro trasferimento stavolta oltreoceano, a Los Angeles, dove ha conseguito un master in regia cinematografica all’American Film Institute.
Il regista palermitano Gabriele Di Sazio ha all’attivo 16 cortometraggi e titoli quali The Jump che gli hanno aperto la strada per l’edizione 2020 dell’ÉCU Film Festival a Parigi.
- Dove ti trovi in questo momento Gabriele? A cosa stai lavorando?
In aeroporto a Palermo in partenza per Genova, e fra pochi giorni tornerò a Los Angeles. Sto lavorando a diversi progetti; di base collaboro con la compagnia di doppiaggio Horseless Cowboy di Los Angeles, con cui mi occupo appunto del doppiaggio in inglese di alcuni film e moltissime serie televisive targate Netflix. Ho anche da poco finito la sceneggiatura per un lungometraggio che vorrei realizzare il prossimo anno. S’intitola Altrove, ed è una storia molto personale, ambientata tra San Francisco e la Sicilia (Naro, in provincia di Agrigento) ispirato a un frammento della mia infanzia. Inoltre sto anche sviluppando l’idea per una serie televisiva ambientata in America.
- Ti piace lavorare in America? Per “A cuore chiuso” sei tornato a Palermo, che rapporto hai con la tua città?
Sì, lavorare in America mi piace molto, specie grazie ai tanti talenti che ho trovato lì e con cui continuo a collaborare. Tuttavia girare in Sicilia ha un impatto emotivo davvero importante, e A Cuore Chiuso è possibilmente tra i film più istintivi che abbia mai realizzato, proprio perché il modo in cui vivo la mia terra è pieno di spunti, davanti ai quali – durante le riprese – ho deciso di alzare le mani e arrendermi. Il mio rapporto con Palermo è tuttavia abbastanza complesso. Questa città rappresenta per me la fonte di aspettative molto spesso deluse e, contemporaneamente, la cura per quelle delusioni. Mi ispira tanta malinconia, e mi manca molto, specie quando ci sono dentro, perché pur riuscendo a mimetizzarmi e a ingannare gli osservatori, in realtà io lo so bene che non ne faccio più parte e a volte mi sorprendo che nessuno se ne accorga.
- Quanto ha inciso l’attuale pandemia sul tuo lavoro e nel mondo della cinematografia?
Tantissimo. Avrei dovuto lavorare da Assistente alla Regia per un film a New York ma è stato posticipato al 2021. Per molti mesi i set sono stati chiusi e solo ora cominciano timidamente a riaprire, benché la situazione negli Stati Uniti rimanga un disastro.
- La chiamano <settima arte>. Il cinema può essere fuga dalla realtà, intrattenere, divertire, far pensare, indignare, arrabbiare ma, nelle pieghe di un sorriso o di una lacrima, ci racconta. In un’altra intervista dichiari che il cinema <è fatto di conflitti silenziosi>. Cosa vuole raccontare il regista Gabriele Di Sazio?
Mi ritrovo sempre a raccontare Casa, la quale porta con sé emozioni sempre molto intense, a volte contrastanti, come nostalgia e malinconia; spensieratezza e preoccupazione; una gioia così grande che è quasi infantile, e allo stesso tempo la sensazione di aver perso qualcosa che, chissà, forse ho solo sognato un giorno di tanti anni fa, quando da bambino mi si chiudevano gli occhi davanti a un film di cui non ricordo il titolo, e dicevo che ero sveglio, che non stavo dormendo, che potevo rimanere ancora per ore e ore.
- Si racconta che il maestro Stanley Kubrick avesse una cura quasi maniacale per i dettagli, la luce, la posizione di ogni singolo attore. Dietro ogni frame un ordito che si svela, una pausa a volte più significativa di un’intera azione, il suono elemento chiave per veicolare emozione. Qual è il tuo rapporto con parola, suono e immagine quando lavori?
Penso che fare un film sia come condividere un segreto. Tuttavia, i segreti veri non sono mai il racconto di un evento o una qualche rivelazione; siamo noi, le nostre emozioni, ciò che ci muove, le nostre paure. Ed è per questa ragione che quando desidero avvicinarmi a qualcuno e condividere me stesso, mostro le mie storie o ne parlo, perché sono molto più efficienti di me nel descrivere chi sono e cosa sto cercando – e allo stesso tempo permettono a chi mi ascolta di entrare nel mio mondo e nei miei segreti.
Il mio rapporto con gli elementi del Cinema – come parola, suono e immagine – è quindi dedicato alla ricerca di autenticità e di sincerità. La telecamera per esempio è spesso l’espressione emotiva delle persone che stiamo seguendo, e nei miei film, per esempio, è molto facile vedere personaggi che si nascondono da essa, mossi da un istintivo bisogno di sfuggire a se stessi. In maniera simile il suono è un mezzo per esprimere esattamente – quasi letteralmente – ciò che i personaggi sentono, e nella maggior parte dei casi è estremamente naturalistico. La musica ne è un esempio in quanto è sempre diegetica, cioè proviene dalle scene del film (come dalla radio, da qualcuno che suona, ecc) ed è parte integrante della storia, invece di essere aggiunta in post-produzione. Le parole, invece, di per sé non hanno molta importanza, perché spesso non sono altro che un modo per distrarre gli altri o se stessi, per prendere tempo, per darsi delle scuse – efficaci solo nel rappresentare la nostra totale incapacità di capire cosa vogliamo e cosa stiamo provando. La comunicazione tra i personaggi è sempre difficile e avviene soprattutto attraverso quello che viene tralasciato o tramite sguardi che tradiscono le parole.
- Tra i registi che più ami John Cassavetes, considerato punto di riferimento tra i registi del cinema americano indipendente, libero dall’egemonia degli Studios hollywoodiani. E’ possibile oggi fare cinema indipendente?
Non ne sono sicuro e devo dire di aver sentito nel tempo opinioni completamente contrastanti. Chi dice che il Cinema Indipendente sia morto con l’ascesa dei film dei supereroi che hanno inghiottito le preferenze dello spettatore medio, mentre chi dice che questo sia invece il periodo migliore per fare Cinema Indipendente, grazie all’abbassamento dei costi di produzione dovuto allo sviluppo delle varie tecnologie legate al Cinema.
Io personalmente penso ci sia ancora spazio per il Cinema Indipendente, ma che forse sia diventato sempre più di nicchia. Tuttavia, credo anche che un cambio di tendenza sia possibile. E di certo spero che avvenga.
- Se dovessi scegliere, a cosa un buon regista non può in alcun modo rinunciare?
Penso ci siano due elementi. Il primo è pratico: gli altri. La collaborazione con i membri di crew e cast è fondamentale, e senza collaboratori talentuosi e affidabili non si va da nessuna parte.
Poi c’è l’aspetto più intimo: alle proprie intenzioni. Non si può rinunciare alla spinta fondamentale che ti ha portato a raccontare quella storia, o, più in generale, a fare Cinema. Spesso ce ne si dimentica o lo si ignora, sotto una pressione esterna, che sia un produttore che non capisce bene il progetto oppure le presunte aspettative del pubblico.
- In una società in cui è spesso più semplice apparire che essere, pensi che oggi il pubblico abbia voglia o sia ancora pronto per un cinema che non sia solo intrattenimento?
Penso che le persone abbiano bisogno di un Cinema che non sia solo di intrattenimento, ma non lo sanno, oppure se lo sono dimenticato. Lo noto soprattutto dal modo in cui ormai si parla, per esempio, delle serie televisive, le quali nella stragrande maggioranza dei casi sono puro intrattenimento, ma per qualche strana ragione vengono descritte come se fossero film da intenditori.
La diffusione del Cinema in streaming non ha aiutato. Di certo ha il suo lato positivo, perché rende accessibile al pubblico moltissimi film. Tuttavia abitua l’audience ad un livello di attenzione abbastanza basso, sia per questioni tecniche, come il suono – che di solito non è al livello giusto – e lo schermo troppo piccolo, sia perché il divano di casa è circondato da tante distrazioni. E quando l’attenzione è bassa, non puoi che essere attratto da contenuti che usano una serie di tecniche per provocare emozioni, le quali da un lato sono forti e immediate, ma dall’altro anche molto labili, che non lasciano alcun segno. Il Cinema che ti cambia la vita ha spesso bisogno di un po’ di impegno e pazienza.
- Quest’anno ricorre il centenario della nascita del maestro Federico Fellini. Ci dici quale immagine, frase o personaggio ti è rimasto dentro?
E’ una scena di un film di Fellini che in realtà per un motivo o per un altro non ho mai visto per intero: I Vitelloni. Quando vivevo a Londra, il mio coinquilino – e ora grande amico – me ne ha mostrato la fine, descrivendomi come l’avesse sconvolto. Ed in effetti ha sconvolto anche me.
E’ la scena in cui Moraldo decide di partire e lasciare il paese. E quando il treno parte, lui immagina l’addio ai suoi compagni come se quel treno stesse passando accanto alle loro stanze mentre loro dormono. Un’immagine in cui ho rivisto molti addii che ho dato, o immaginato, a Palermo.
- Conti nel futuro di tornare a lavorare in Italia?
Spero di sì, anche perché i miei film hanno sempre qualcosa che in qualche modo mi riporta alla Sicilia. Inoltre ho sempre pensato che il Cinema fosse per me un modo per tornare a casa, e di certo l’idea di portare il Cinema a casa mi fa provare tante belle sensazioni.
Un grazie a Gabriele Di Sazio da parte mia e di tutto il team Siciliando per il garbo e l’autenticità con cui è stata realizzata questa intervista.
Benedetta Manganaro