Recensione di Lorenzo Spurio al 49° libro di Francesco Billeci “Monologhi per attori” Edizioni Billeci © 2022
Questo nuovo lavoro letterario di Francesco Billeci, acclamato poeta, scrittore e organizzatore culturale di indubbie capacità, non solo a livello siciliano ma nazionale, va dritto al cuore del lettore in maniera immediata. L’Autore ha deciso di raccogliere in questo volume, anticipato da una suggestiva copertina dove domina il nero del tormento, del dubbio, del dolore e della sopportazione dinanzi ad aberrazioni quotidiane, una serie di testi, tanto in lingua italiana che in dialetto, pensati per una resa – diremmo una dettatura – teatrale. Sono monologhi, testi pensati come recitativo, come dialogico intimo tra l’orante e se stesso, nelle pieghe recondite della sua anima, tra un dicitore attento e dalla loquela efficace e un pubblico in attesa di cogliere un messaggio.
E di messaggi ve ne sono molteplici da raccogliere da questi testi di Billeci, alcuni più corposi e dall’andamento lievemente prosastico, intesi a raccontare una determinata scena dove accadono vicissitudini dolorose, altri più spigliati, basati su un’ossatura più agevole e nei quali la chiave sinottica e il dire parco e argentino si coniugano in una resa senza pari.
Qui si parla di dolore e devianza, di come l’uomo può rendersi colpevole di veri drammi, responsabile di eccidi, violenze gratuite, offese verso la sua donna, gli altri. A dominare è un sentimento d’incomprensione tra i simili, di allontanamento dal bene comune; Billeci descrive le situazioni in maniera limpida non esimendosi di usare, quando l’occasione lo impone, un linguaggio ben più duro, di vera condanna nei confronti delle crudeltà dell’uomo.
Vi si ritrovano monologhi in cui il lettore (e spettatore; ci auguriamo che questi monologhi possano ben presto venire recitati ed essere sviluppati, dunque, nel loro naturale contesto) prende parte allo sfogo per le vessazioni contro la donna, ma anche le ipocrisie generalizzanti di una supposta classe popolare che non fa altro che ghettizzare, classificare, puntare il dito, screditare, comportarsi in maniera malevola e disdicente dinanzi a coloro che, secondo il suo punto di vista, non si uniformano alla generalità della gente.
Ben dice il poeta e critico letterario Antonio Barracato in una sua recensione inserita nel volume quando parla di ipocrisia, pregiudizi e considerazioni ottuse della gente. Sono, in effetti, questi gli ingredienti di barbara e omertosa colpevolezza che l’Autore ben delinea nelle sue storie.
Ficcante il monologo su Tiresia in cui Billeci riprende la tradizione del mito greco che vede in Tiresia, uomo cieco proteso a conoscenze date ai pochi, una natura doppia, mutevole e dunque tendenzialmente inconoscibile. Tiresia assomma il sé la totalità del genere umano e, dunque, anche grazie alla sua posizione divinatoria, è in grado di vedere dentro (paradossale il verbo “vedere” se ricordiamo della sua cecità) nella natura delle cose, nell’abisso dell’animo delle persone. Indirettamente si richiama tutta la tradizione letteraria di Tiresia che ci ricorda il celebre spettacolo-orazione andato in scena al Teatro Greco di Siracusa, opera di Andrea Camilleri in tarda età (Una “Conversazione”, la sua, in chiave simpatetica ad altri celebri “disquisire” tutti siciliani, si veda il geniale e mai tramontato Vittorini), ma anche al richiamo che il modernista T.S. Eliot ne fa nell’opera “La terra desolata”, capolavoro della letteratura di inizio secolo scorso che già in nuce tramanda i motivi del tormento, della desolazione interiore e del dramma insito dell’uomo dinanzi ai tormenti sociali, agli accadimenti tortuosi, a una vita che spesso giunge a un capolinea di difficile soluzione.
C’è, di rimando, anche la tradizione dell’ermafroditismo, con le sue molteplici valenze, assai nutrita nella letteratura di lingua inglese del secolo scorso (“Orlando” di Virginia Woolf) ma non solo; penso al magmatico e irriverente romanzo-fiume “Middlesex” di Jeffrey Eugenides. Eppure l’intenzione di Billeci, la natura primaria, è quella di ricondurre, in forme inconsce e automatiche il tutto alla dimensione sociale e al contesto civile a lui ben più noto, che è quello in cui è nato e vive: la fantastica Trinacria.
Ce lo ricorda assai bene uno dei monologhi che ha a che fare con la testa dei mori (celebri quelle giganti di Caltagirone), elemento identitario specialissimo della Sicilia che fa parte del suo identikit culturale e folklorico (si pensi a come vengano vendute, in motivi riccamente elaborati, con fregi e con tinte sgargianti) dai negozi di bottega per turisti ma anche in produzioni di ceramica d’alta qualità dell’Isola. Ecco – la testa dei mori – che è un motivo siculo ricorrente un po’ come l’orecchio di Dioniso (Siracusa), le vicende astruse e disperate di Giufà e la leggenda di Colapesce (Messina), diventa in questo volume di Billeci un elemento fondante e caratteristico. Tale monologo, che è forse uno dei più tragici dell’intero volume, mostra una donna-amante che, avendo compreso di essere stata illusa da un uomo al quale si è data, non si danna l’anima né si strugge delle sue debolezze ma, al contrario, la porta a reagire in maniera assai pratica e risolutrice, mediante l’uso della violenza. È una storia di grande fascino ma di profondo terrore, un po’ come le truci storie de “Le mille e una notte” eppure Billeci ben mantiene saldo il metro, il respiro, l’andatura del suo recitativo, che diviene molto strutturato, assai veridico al punto che il lettore è in grado di vedere plasmate dinanzi a sé e in maniera assai definita le scene. Anche quelle dolorose della decapitazione e del successivo interramento nel vaso. Di questa storia, dopotutto, come non cogliere un rimando de “Lisabetta da Messina”, una delle più ricordate novelle de “Il Decamerone” di Boccaccio? Anche lì si assiste alla decapitazione di un uomo la cui testa verrà conservata in un vaso con terra dove verrà coltivato il basilico. C’è, però, una differenza sostanziale. In “Lisabetta da Messina” sono i fratelli della donna a decapitare l’amante della donna e sarà lei, una volta che avrà ritrovato il capo dell’uomo, a curarlo in chiave vegetale; nel monologo di Billeci, invece, è la stessa donna, un tempo amante fervida del moro, a dar lui la morte con grande impeto animata da una vendetta amara che non può compiere in altro modo. Pur essendo un testo ricco di efferatezza, Billeci vuol forse sottolineare come nella nostra società ormai – e per fortuna – la donna sia capace di difendersi e, a tutti i costi, di farsi giustizia da sé dinanzi a ingiustizie, tradimenti e violenze di ogni genere.
Billeci parla di storie attuali riprendendo la tradizione letteraria, i suoi monologhi sono assai ricchi di elementi che ci fanno riflettere ma che spesso ci interrogano dinanzi a una serie di questioni non chiarite del tutto. Così come avviene nelle opere che sono direttamente dedicate alla violenza sulle donne e all’omofobia, drammi endemici della nostra attualità. In “Il risveglio di Eva” (monologo presente anche in versione dialettale) la giovane protagonista, succube di un uomo maldestro e violento che l’ha messa incinta e condotta in fin di vita all’ospedale al termine dell’ennesimo alterco, grazie al supporto della psicologia riesce a confessare il dramma subito all’interno delle mura domestiche e a denunciare il suo boia. Un finale che in qualche modo appaga il lettore/spettatore per il suo civico desiderio di giustizia e di pene per il reo ma, in fondo, questo accade nella realtà? Quante volte sentiamo di storie in cui la donna, pur avendo denunciato più volte il suo aggressore al quale erano state, magari, imposte palliative misure di allontanamento, finisce per uccidere la donna che un tempo diceva di amare? Si sa, il cambiamento può avvenire da una reale presa di coscienza e questa non può che essere figlia che di una reale volontà di imprimere una fine veloce alle violenze subite. Eppure c’è qualcosa che non torna. Non sempre il sistema-Stato che si vanta di essere a misura d’uomo, in completa sinergia con i bisogni dell’uomo e pronto a intervenire in maniera sicura a beneficio delle persone ingiustamente maltrattate, è in grado di assicurare giustizia e, qualora vi riesca, in tempi celeri e, ancora, una giustizia certa, non derogabile a permessi premi, fantomatiche premialità per buona condotta.
I testi di Billeci sulla violenza di genere certamente sottolineano di gran misura l’importanza della condanna di atteggiamenti violenti, la necessaria negazione del maschilismo patriarcale e di ogni forma di violenza, fisica o psicologica, nei confronti del genere femminile. Ci poniamo, però, stando continuamente a contatto con una cronaca dolorosa che è sempre la brutta replica di se stessa, qualche interrogativo: purtroppo molto spesso non basta condannare, denunciare, esplicitare la propria situazione di dolenza e sopraffazione perché le incongruenze e le burocrazie di uno Stato spesso impreparato o incapace e di una giustizia illusoria, manchevole e non rappresentativa del valore inestimabile della vita s’impantanano o si dimenticano del senso della vita, del rispetto concreto dell’esistenza. Ben vengano, dunque, operazioni letterarie come questa di Billeci che, se non serviranno a risolvere tragedie (dato che la letteratura non ha mai risolto guerre, impedito pandemie, allontanato follie e degenerazioni) senz’altro permetteranno di argomentare le proprie idee in materia, riflettere, solidarizzare con le tante vittime che sono cadute in un gorgo di doppia dimenticanza: di morte fisica, prima, e di mancanza di giustizia, poi.
Anche i monologhi che affrontano il tema dell’omofobia risultano di particolare interesse, utili per parlare di un tema forse ancora troppo stigmatizzato e meno venuto alla luce rispetto alla violenza di genere, ancora troppo ancorato in pregiudizi pesanti, rancori illegittimi, motivo preconcetto nell’analisi di colui che, sbagliando, definiamo “diverso”, quando non è altro che uno di noi. Episodi dolorosi, come quello del “Ragazzo con i pantaloni rosa” passato alle cronache anni fa e molti altri analoghi in cui, tra bullismo spietato e mancanza d’attenzioni da parte di famiglia e scuola, rischia di diventare un problema ben più ampio di quel che appare, che spesso trova sfogo in epiloghi suicidi e di pura dannazione.
Lorenzo Spurio