La figura materna tra cielo e terra
Come altri poeti del Novecento, anche Ungaretti e Montale hanno proposto la figura della madre nella loro produzione poetica, ma ce ne danno una rappresentazione e ci descrivono un rapporto con lei e con la sua morte completamente differente. A rendere così diverse le poesie dei due autori dedicate alle rispettive madri è principalmente la religione: Ungaretti, dopo un lungo periodo di riflessione, trovò nella religione cattolica lo strumento per uscire dal male di vivere, Montale invece, se si prescinde da una giovanile influenza di tematiche religiose, resta estraneo ad una riflessione esistenziale e metafisica sul Cristianesimo. Il lutto spinge Ungaretti a riflettere sulla propria stessa morte che gli permetterà di ricongiungersi alla madre, alla condizione d’innocenza che rappresenta, ma che egli non possiede, pertanto bisogna che lei invochi il perdono divino affinché tale ricongiungimento possa realizzarsi. E’un estremo gesto di amore che, proprio perché volto all’intercessione divina, non ammette terrene manifestazioni di affetti: “E solo quando m’avrà perdonato,\ ti verrà desiderio di guardarmi“. Per concludere il rapporto madre-figlio e il tema della morte vengono vagliati in una prospettiva religiosa, che pone sottotraccia la terrestrità. Anche il ”ridarai la mano” e “l’avrai negli occhi un rapido sospiro”, sono inseriti in una prospettiva religiosa che rimanda al dopo la dimensione umana della manifestazione affettiva e, non a caso, rende la madre “una statua davanti all’Eterno”, mantenendo la rigidità morale che la caratterizzava quando era in vita. La morte punta verso l’aldilà e non verso gli affetti terreni: ”.. Mio Dio, eccomi,” dice infatti la madre sul punto di morire e non, ad esempio, ”Figlio mio ti lascio”.
Né è presente la dimensione dell’io sofferente per la morte della madre, poiché il poeta costruisce il componimento esclusivamente sull’ipotesi d’incontro con lei, che, in una sorta di triangolo amoroso, esercita la sua funzione mediatrice al cospetto di Dio, per congiungersi affettivamente al figlio. Invece la madre è considerata da Montale nella sua materialità unica e irrepetibile e resta viva nella sua memoria per il ricordo di precisi gesti che la caratterizzavano. La madre riteneva che il corpo fosse “un’ombra”, l’aspetto esteriore di una realtà metafisica e che la morte fosse la via che porta alla vita eterna. Ma per il poeta, la vita terrena non è un’ombra, essa vale per se stessa e, a livello memoriale, è l’unica forma di sopravvivenza: “quelle mani quel volto …\ solo questo ti pone nell’eliso”, ossia nel paradiso memoriale di chi le ha voluto bene. Anche nel secondo verso della poesia di Ungaretti, troviamo il termine ”ombra”, ma diversa è la valenza semantica, infatti è l’intero percorso della vita con i suoi possibili errori ad essere ombra che, come baluardo pietroso, impedisce l’ascesa a Dio.
Montale invece, anche quando si avvicina a Dante, questi lo interessa non per la tematica religiosa della Divina commedia, quanto, attraverso la sollecitazione eliotiana, per la sua struttura allegorica, che gli consente di dare universalità oggettiva alla vicenda personale e di utilizzare stilemi, termini e concetti della religione cristiana in chiave completamente laica o, per meglio dire, per proporre una nuova religione: quella delle lettere; di conseguenza, per il poeta è impossibile allontanarsi dalla concretezza terrena e non solo considera la madre nella sua fisicità memoriale, ma la circonda anche di particolari concreti, di animali; inoltre il momento emozionale soggettivo scompare del tutto e la morte della madre diventa correlativo oggettivo di valori che la II guerra mondiale, a cui si allude nei vv. 4 e 5, nega. Il valore dei morti coincide anche con il recupero dell’infanzia, connotata anche a livello topico con il riferimento alle Cinque terre, al Mesco, luoghi della fanciullezza appunto, che la rielaborazione del lutto ripropone alla memoria insieme alla madre con “quel volto, quelle mani”. La religione delle lettere a cui si alludeva prima, induce anche ad attenzionare l’aspetto stilistico-formale di “A mia Madre”: la lirica fa parte di Finisterre, I sezione de La bufera ed altro e, come le altre liriche di tale sezione, si caratterizza per il monolinguismo e il monostilismo, prima di ricorrere a uno stile più mediato e realistico che il tragico contesto bellico imponeva. Finisterre, come M. sostiene nell’intervista immaginaria del ’46, “rappresenta la sua esperienza petrarchesca” che si esplica in un classicismo moderno, dato dagli endecasillabi con numerose rime libere dai vv. 7-8 a scalino e insieme costituenti un endecasillabo, dal lessico aulico e sostenuto, dalla sintassi lineare che si espande strutturalmente in due periodi.
Altrettanto inseribile nel classicismo moderno è la lirica “La Madre” di Ungaretti che fa parte della raccolta Sentimento del tempo, silloge in cui l’autore, dopo la stagione ermetica, non solo mostra di avere ritrovato la dimensione dell’Eterno, ma anche la metrica e lo stile tradizionale, infatti la poesia è costituita da cinque strofe di endecasillabi e settenari e vi domina un linguaggio caratterizzato da ricercata semplicità che si carica semanticamente attraverso un immediato analogismo, di significati metafisici. Lo stesso vale per l’alternarsi dei tempi verbali, nell’ambito dei quali, il presente è rilegato nell’atto dello scrivere e il futuro e il passato possono coesistere solo se quest’ultimo si espande in una prospettiva morale ultraterrena. Insomma, siamo di fronte ad una libertà analogica che si impreziosisce anche per Ungaretti di tradizione petrarchesca.
Francesca Luzzio