Tante belle cose
Napoli, 08 giugno 2023
Caro Vincenzo,
ho deciso di scriverti perché è il modo migliore per farti sapere ciò che penso da tempo di te, e di noi e che non ho mai avuto il coraggio di dirti.
Conosco altri modi per farlo, non ne conosco di più adatti. Scrivere una lettera è come quando guardi nello specchio retrovisore della macchina: vedi riflessa la tua immagine e ciò che la circonda, ciò che sta vicino, ma soprattutto ciò che sta lontano. Se osservi bene, fissando nello specchio, ti accorgi di alcuni particolari, dietro di te, che ti erano sfuggiti. L’immagine si allarga, e noti il faro sinistro (o forse destro, ho difficoltà con le immagini riflesse…) dell’auto che ti segue, più opaco dell’altro, gli alberi che si rimpiccioliscono ai lati della strada pian piano che vai avanti, le nuvole ferme nel cielo mentre corrono con te. Lo sguardo ti conduce attraverso un viaggio immobile, che ti lascia esattamente nel posto da cui ti sei allontanato, senza che ti sia mosso mai davvero, ma che alla fine ti porta comunque alla meta. È un viaggio strano perché non ti ha spostato di un millimetro. Ti ha fatto partire cinque anni fa e ti ha condotto fino a qui, nello stesso punto di partenza. Lo senti lungo e ricco di incontri e di imprevisti, di soste e di ripartenze. Ti ha divertito e ti ha stancato, ti ha commosso e ti ha intristito, ti ha smarrito e ti ha ritrovato. Eppure…
Eppure, sei ancora qui, proprio qui, esattamente dove stavi, all’inizio, prima del viaggio. Non è cambiato niente? È cambiato tutto. La domanda giusta non è: “Dove sei arrivato?”, ma: “Quando sei partito?”. E soprattutto: “Con chi?” E allora, questa lettera mi aiuta a guardarmi indietro, e a vedermi mentre percorro il mio cammino che mi ha portato fino ad oggi, con te accanto, per tutto questo tempo.
Ricordo il tuo racconto dell’estate scorsa, quando ti trovasti su una barca al largo, sulla quale non avresti scelto di salire nemmeno contro la tua volontà, su un mare profondo e limpido come lo sguardo della tua ragazza (dicesti proprio così…). Tutti gli altri contenti, a fare scherzi inutili e tuffi scoordinati, a mostrare deltoidi allegri e sorrisi scolpiti. Tu no. Tu non vedevi l’ora di approdare in terra ferma, a sfiammare la pelle con doccia e creme. Dicesti che quella giornata fu larga come la misericordia di Dio, anche se in realtà durò poche ore. Era il tuo migliore esempio per dimostrare che non è il tempo che passa, ma siamo noi che passiamo.
Questo tempo è passato veloce, io un po’ meno. Non mi dispiace. Io ho assistito al suo passaggio. Mi piaceva stare da solo e riempirlo di un sacco di cose: di voci, di silenzi, di sguardi e di noia, quella che prima ti ammorbidisce i muscoli e poi li rinforza, pronti nuovamente a ripartire. Sei passato anche tu. Ho sempre pensato che non sia tanto importante raggiungere il traguardo, quanto percorrere il cammino che fai per arrivarci. Mi rispondevi che ancora più importante è lasciare impronte su quel percorso, per chi procede accanto a te e per chi verrà dopo di te.
Cinque anni. Tanti. Una traversata a volte lenta, a volte veloce, ma non lunga. Ricordo che avevi sentito dire da una persona importante che spesso la gente si sforza di allungare la propria vita, quando invece dovrebbe provare ad allargarla. Non mi era chiaro cosa volessi dire. Poi me lo hai fatto capire meglio. Da appassionato conoscitore di animali citavi spesso l’esempio di una farfalla che vive al massimo ventiquattro ore. Potremmo mai chiederle, dicevi, di attendere “solo” cinque minuti? Quando poi succede, come con la tua fidanzata, che aspetti anche un’ora, accanto ad un citofono dal quale per dodici volte senti la sua voce che dice: “E solo cinque minuti!”, avresti sottratto alla farfalla 1/228 del suo tempo vitale. È come se la tua fidanzata ti stesse chiedendo di attendere “solo” tre mesi e mezzo! In ogni caso, il ragionamento non è mai stato condizionato dal fatto che si chiamasse Effimera, e mi riferisco, naturalmente, alla farfalla…
A volte sentivo fare, dagli altri, domande inutili, solo per far passare il noioso tempo che la scuola ti dà, o per soddisfare la curiosità del momento, o semplicemente per andare oltre l’interrogativo del quesito e nascondere in realtà un esclamativo: “Sono qua!”. Ne ricordo una in particolare, fatta da Gianmarco, quello dell’ultimo banco. “Esistono domande inutili?”. Vittoria, con il suo abituale tempismo, rispose: “La tua!”. Dopo le scontate risate alzasti la mano chiedendo di parlare. “Secondo me non esistono domande inutili, qualche volta lo sono alcune risposte. Ma la cosa più inutile è non porsele mai”.
Era una giornata di inizio maggio. La primavera entrava da tutti gli spiragli possibili, si infilava dalle guarnizioni delle finestre con i suoi spifferi e riscaldava troppo una metà dell’aula e troppo poco l’altra, creando una convivenza perfetta di due fasce climatiche, divise da una linea d’ombra che sottraeva lentamente centimetri all’una, aggiungendoli all’altra, a seconda del pigro spostamento dei raggi del sole. Quella risposta abbassò di diversi gradi la temperatura dell’aula, proiettandoci in una giornata di ottobre, dal cielo limpido e dall’aria fredda, che ti contrae il viso e ti stringe gli occhi. Le nostre bocche rimasero semiaperte, per qualche istante. Non uscì né un suono, né un alito di vapore, malgrado ci fossimo trovati all’improvviso in pieno autunno… Qualcuno, provando a sciogliere quei brividi silenziosi, disse che non tutte le domande hanno una risposta, ma che a volte porsi la domanda è importante, anche quando non c’è risposta.
È stata la giornata più larga di tutto il quinquennio.
Mi auguro che il tempo passato insieme non sia stato inutile, o almeno non sempre. Abbiamo parlato di tanti argomenti, affrontato tante discussioni anche se, ogni volta che tornavo a casa, rispondevo: “Niente, nessuna novità” all’immancabile domanda: “Che hai fatto oggi?”. Mi sembrava di svelare un segreto, di spifferare cose che era giusto rimanessero conservate nel riserbo della classe, e che quel voler sapere a tutti i costi quali magie avvenissero, lo pativo come una violazione delle nostre confidenze.
Mi spiace non averti detto tutto questo prima, non ne ho avuto il tempo, e questa è la bugia più grande che ho raccontato. Ne ho dette altre. Ho cercato di distribuirle nei cinque anni, in modo che nessuno se ne accorgesse e che mi giocassi i miei jolly al momento opportuno. Sono stato in buona compagnia.
Ricordo quando parlasti della tua Lilly. Un’agonia di due giorni, quella povera bestiolina, che ha lasciato in te un vuoto incolmabile. Non ti ha permesso, ovviamente, di prepararti sulle cause della fine dell’Impero romano d’Occidente, e non hai potuto focalizzarti sui comparativi, ma il tuo stato d’animo fu compreso da tutti: chi di noi non ha avuto il suo animaletto, che fosse un opossum o un pesce rosso, morto di qualunque causa immaginabile, anche di vaiolo, debellato pure per gli umani dal ’79? In qualche caso, subirono la funerea sorte più di una volta, forse per un’ignota capacità auto rigenerativa. D’altra parte, perché l’araba fenice sì e il mio Romeo no?! La solidarietà era unanime e convinta…
I saluti in una lettera sono la parte apparentemente più semplice. Basta un arrivederci, grazie di tutto, e fine. Ma questo momento lo vivo con difficoltà.
Vedere materializzarsi pian piano, da sinistra a destra, sul foglio, sotto la mia mano, il punto e a capo di una storia, è un tratto di penna incancellabile. Non è semplicemente la conclusione di una lettera. È la fine di un viaggio che proseguirà altrove, ma che adesso si deve arrestare, per forza. Non ho mai amato le interruzioni: le pubblicità durante il cambio di campo di Federer, i silenzi tra una canzone di Sergio Caputo e un’altra di Rino Gaetano, l’attesa in pizzeria tra il caffè bollente e il limoncello ghiacciato, l’arrivo al casello per pagare il pedaggio della tratta Frosinone-Caserta Sud. Ho vissuto l’installazione del telepass sulla mia auto con maggiore gioia del gol di Koulibaly in Juventus – Napoli, 34^ giornata, stagione 2017/18.
E se mi evitassi questo disagio? Accetteresti un’eccezione al rispetto della struttura epistolare? Mi limito a un po’ di auguri per il prossimo anno, ci aggiungo uno “stammi bene”, un pizzico di “fammi sapere di te” e “ci vediamo presto” quanto basta, che ne dici?
Napoli 15 giugno 2023
Caro Stefano,
un compito svolto quando non richiesto, dunque non dovuto, non può che essere sentito. Per questo ha un valore inestimabile, per questo lo conserverò tra i doni preziosi.
Questo tempo è scorso via, in un battito di ciglia. D’altronde, lo sappiamo che quando si passa in piacevole compagnia, facendo cose piacevoli, il tempo vola. Viceversa, quando la noia prevale, il tempo non passa mai. Nella vita non si può mai sapere. Oggi ci sei, domani chissà. Certo, meglio non cantare vittoria troppo presto. In ogni caso, parlare in modo diretto mette al riparo da equivoci: patti chiari e amicizia lunga. Infatti, io sono ottimista e sono convinto che a tutto c’è rimedio, tranne che alla morte. E poi non esistono solo il bianco e il nero, ma tante sfumature di grigio.
Potrei andare avanti per secoli con questi luoghi comuni, aggiungendo un “qua una volta era tutta campagna”, o “il film è bello, ma il libro è tutta un’altra cosa”, così, a caso. Potrei riempire pagine intere, per quanti ne ho ascoltati. Soprattutto dai colleghi.
Tu invece hai evitato il più imperdonabile degli errori, che non tollero in alcun modo, innanzitutto da me stesso. La banalità. Anche io cado a volte in questa scorciatoia, che induce a non dire nulla dicendo troppo. Tu hai detto tutto dicendo poco. In modo sincero. O meglio, autentico. Hai espresso il tuo pensiero in maniera molto tua, parlando a una persona che sentivi vicina, che sapevi ti avrebbe ascoltato senza pesare le parole, senza esprimere giudizi, senza sottoporti a valutazione. Proprio con quello che fa questo di mestiere! Soppesa, esamina e perizia, e poi, acquisiti i dati, rilascia l’attestato. Sai, quello che una volta era la pagella ora si chiama “Documento di valutazione”, che fa più catasto. A proposito, sai perché si chiama pagella? Deriva dal latino pagellam, un diminutivo di pagina. Quindi letteralmente una piccola pagina. Ecco: alla fine tu e i tuoi compagni siete ridotti in una pagina che dice quanto valete, cosa avete imparato, cosa farete in futuro e in qualche caso pure quanti figli avrete! Una specie di palla di vetro che parla di ciò che siete, ma anche un po’ di quello che sarete. Un ritratto del presente, con vista sul futuro. Hai capito di cosa sono capace? E tutto questo trascorrendo con te solo alcune ore a settimana, ascoltandoti quando ti chiedo io di parlare e zittendoti quando non mi va di sentirti. Uno strapotere che manco Nembo Kid.
A differenza tua, il mio viaggio con te è stato lungo. Non lo prendere come un limite. Sai bene quanto io sia nemico dei tempi rapidi, delle abbreviazioni, delle pause brevi e dell’Alta Velocità. Potessi, salirei sempre su un “accelerato” che, contrariamente a come il nome suggerisce, era un treno dei miei tempi, quelli passati (e lenti…), che decelerava pure quando il cielo si rannuvolava, per prudenza. Quando ci salivi, non era scontato che raggiungevi casa in giornata: dipendeva dal meteo e dalla stagione in cui ti trovavi. In primavera, di sera, andava più lento, perché le sfumature vespertine vanno contemplate. Ho sempre nutrito il sospetto che avessero la retromarcia, come diceva Sir Winston Churchill dei carri armati italiani. Magari gli accelerati arrivavano in ritardo, ma erano pacifici.
Devo ringraziarti di due cose. La gratitudine è un sentimento poco diffuso, di questi tempi, ancor meno esercitato. Un po’ come il cattolicesimo, che conta la maggioranza assoluta di “iscritti” al club, si celebrano battesimi, comunioni e cresime a rotta di collo, ci si sposa in chiesa, che altrimenti che pensa la gente? Ma poi a messa ci vanno solo le vecchiette, la materia alternativa a scuola si diffonde come la scarlattina, i matrimoni civili aumentano e una serie di altre cose che dimostrano che lo spirito cristiano, nella quotidianità, si è annacquato e che, rimanendo nella terminologia scolastica, l’organico di fatto è di gran lunga inferiore a quello di diritto. Ma sono il meno adatto a parlare di questo argomento, essendo politeista. Ho ben due religioni in cui credo ciecamente e che celebro con scrupolo: la laicità e il Napoli, elencati in ordine rigorosamente alfabetico…
Sempre più di rado si sentono due parole ormai desuete, non sinonime ma che in qualche caso si potrebbero scambiare tra loro, senza ingenerare equivoci, anzi, arricchendone semantica e valore: grazie e scusa. Ci vuole coraggio a dire grazie, di più a chiedere scusa. Per entrambe, devi mettere in discussione una parte di te, svelando zone nascoste, quelle più vulnerabili. Avrei troppe cose per cui chiedere scusa, caro Stefano, e non solo a te. Troppi dolori inferti, troppe amarezze arrecate, troppe parole sbagliate, troppi silenzi imposti. Il mio mediocre coraggio mi limita a pochi “grazie”, sollevandomi dall’imbarazzo dei troppi “scusa”.
La prima cosa di cui devo ringraziarti è di avermi dato finalmente del tu.
Quando ero alle medie, nell’Alto Medioevo, mi scappava ogni tanto un “Prof, posso dirti una cosa?”. Malgrado la sua correzione, ero contento del mio involontario “errore”. Perché le volevo bene. Non c’è niente di più offensivo, innanzitutto nei confronti di se stessi, che rivolgersi a qualcuno per cui non nutri affetto dandogli un ipocrita lei.
Una volta un alunno mi ha chiamato papà. Ho giocato d’anticipo: l’ho ringraziato.
Il secondo grazie è per la tua memoria. Mi hai rievocato episodi che avevo dimenticato. Ricordandomeli mi hai restituito intatto il passato, non offuscato dalle nubi, riportato alla sua forma originale, come una statua greca restaurata, a cui ripristini la sua autenticità, i colori svaniti e la lucentezza degli occhi.
I saluti, invece, io non li evito. Innanzitutto, perché sai che sono un purista e la forma della lettera va rispettata. Poi perché il saluto non allontana, esprime prossimità e voglia di rivedersi, desiderio di incontrarsi, rievocando il periodo del liceo, che quando lo frequentavamo sì che era serio, oggi non più come quello dei bei tempi, ma dove andremo a finire, di questo passo?… E così via, un luogo comune dopo l’altro, che avranno la tenera dolcezza della malinconia, e non la patetica amarezza della nostalgia.
Caro Stefano, ti lascio con il saluto più bello che io abbia ricevuto in dono: quello di mio zio Paolo, che me lo regalava dopo larghe giornate insieme a lui, ragionando di Luciano De Crescenzo e di Roberto Murolo, i più grandi cantori della napoletanità. Andando via diceva, sempre: “Tante belle cose”.
Somigliava a un augurio.
Tante belle cose, Stefano.