(Plenis Velis – a vele spiegate – Petronio)

      E’ sempre astruso dar di mano ad un testo che raffiguri una recensione su un’opera, a qualsiasi ramo essa appartenga, letterario, pittorico, lirico, scultorio od altro, perché l’intento di parlarne, di disquisirne, di sceverarne il recondito significato, valutando, al lume del proprio gusto, della propria cultura, del proprio punto di vista, l’intima essenza dell’opera stessa, rispecchia l’ineludibile necessità di entrare il più armonicamente possibile nella mentalità dell’autore, nell’intimità del suo animus creativo, di scavare impudicamente nella sua storia esistenziale, nel decorso del suo primo approccio con la materia eletta e nei suoi trascorsi con essa.

     E ciò, in un certo qual senso, equivale a mettere a nudo l’essenza di un’altra persona, porre il naso nell’altrui, sciorinarne i tratti salienti del suo più profondo sentire, invaderne la privacy spiattellando in piazza un’interiorità a volte gelosamente custodita e difesa.

      Il frutto dell’intelligenza e del sentimento di un artista, l’opera, è, dunque, una esternazione del più profondo “Io” di una persona, il suo nus, come argomentava Nietzsche, una palese apertura sulla propria intimità culturale, uno squarcio caratteriale creativo; ed in quanto tale potrebbe sembrare indecoroso da parte di un terzo dirne bene o male, esaminare i dettagli del prodotto e attraverso di essi dettagli scoprire la creatività dell’artista e mettere in evidenza i tratti salienti del suo essere, come accennavo prima, dando in pasto ad estranei, perché in fondo, benché cultori di quell’arte, all’infuori dell’autore tutti sono e restano estranei al realizzato, una realtà esistenziale che dovrebbe rimanere segreta.

      Ma è pure intuibile che ogni prodotto della produzione umana debba necessariamente essere oggetto di esame; diversamente non esisterebbe la possibilità di un giudizio, di una comparazione con altre creazioni dello stesso genere e non avrebbe senso il contraddittorio valutativo.

      E’ innegabile che il processo creativo, l’arte, sia un sognare ad occhi aperti; e, come il sogno, è qualcosa che promana da noi, si, ma che supera la nostra limitata sfera esistenziale e si libra in un  cosmico empireo restando spesso ammirata, invidiata od incomprensibile.

      Dice ancora Nietzsche: “quidquid luce fuit, tenebris agitciò che noi viviamo nel sogno, ammesso che lo viviamo spesso, appartiene in definitiva all’economia generale della nostra anima, come una qualsiasi esperienza veramente vissuta …”

      Tuttavia, omnia munda mundis, come chiosava il Manzoni, se si vuole esaminare un’opera, sia che appaia reminiscenza onirica o provenga da una situazione realmente occorsa, fotografarne mentalmente i tratti, rendersi conto della sua consistenza, acquisirne il significato ed apprezzarla per quello che veramente è ed esprimere il proprio pensiero su di essa, inevitabilmente, per l’osservatore, per il critico o per chiunque, secondo la propria indole, ci si trova a dover indagare sull’autore, a mettere le mani sulla di lui esistenza cercando di interpretarne la valenza al lume dei suoi studi, dei detti suoi trascorsi, del suo carattere e di quant’altro di personale che vi sia: in una parola, bisogna necessariamente invaderne la privacy dissertandone a viva voce e coralmente.

      Da un punto di vista puramente filosofico-morale mi chiedo: si ha il diritto di far ciò?

      Ecco che qui scatta l’amletico dubbio.

      Ma la risposta è immediata e diretta e non può essere che quella: certamente si. Dal momento che qualcosa si produce è innegabile che la si debba valutare e, quindi, scandagliare i motivi che l’hanno prodotta. In fondo l’arte non è altro che comunicare: un dialogo fonicamente muto che interviene fra autore e  fruitore, ma intensamente trasmissivo ed illuminante.

      Aggiungo in più, rifacendomi all’inizio della presente chiosa circa la difficoltà che presenta la redazione di una qualsiasi recensione, e ciò è ampiamente risaputo e condiviso, che trovarsi dinanzi ad un foglio bianco di primo acchito è scoraggiante; eppure in un qual certo modo bisogna pur cominciare a riempirlo adeguatamente e nel presente caso m’è parso opportuno e confacevole, a mò di proemio, di overture, di prefazione e per entrare con discrezione in argomento, appigliarmi ad una mia personale riflessione sull’opportunità di intrufolarmi o meno in un mondo privato; comportamento, il mio e di quanti amiamo scrivere, che può trovare un suo credito oppure no.

      Atteso ciò, col dovuto tatto, col dovuto rispetto nei riguardi della dimensione esistenziale altrui, mi accosto in punta di piedi all’universo interiore di Toti Coco, che con questo compendio, “Opere e Didascalie”, doviziosa raccolta di un iter artistico del quale profondamente io non conoscevo l’entità, coacervo di opere grafiche da lui create nel tempo e da lui con molta sagacia suddivise in oli, scarabocchi, disegni, ritratti, storyboard e fotografie, con questo compendio, dicevo, ha voluto esplicitare un suo excursus artistico mostrando i lavori eseguiti durante il suo gravitare nella quotidianità; dalla visione di questi lavori io tenterò di interpretare il giusto senso più recondito e, attraverso di essi, cercherò di capire l’etica dell’artista, la sua visione dell’essere, il suo modo di pensare e d’interagire e le sue più profonde qualità umane ed artistiche.

      Già sin dalla prima immagine che compare sul frontespizio del libro, uno stelo  derelitto, secco, intricato, dalle propaggini contorte quali disperate braccia che si protendono nella vana ricerca di una qualche salvezza, ramo senza più funzione abbandonato sulla nuda terra, quasi a voler simboleggiare la caducità dell’umana natura, appaiono chiari ed indefettibili sia la sensibilità dell’Autore di fronte alla realtà contingente che il suo modo di approcciarsi ad essa.

      La fragilità dell’esistenza rapportata alla capacità di ciascuno a saperla affrontare.

      Toti Coco è un personaggio schivo, umile, riservato; non ostenta mai la sua valenza, ha il pudore di nascondere il suo dispiegarsi nell’arte; ma è pregno di una forte componente creativa che lo fa spaziare, oltre che nella disciplina del disegno, della pittura, del bozzetto (che lui per modestia svilisce definendolo scarabocchio), anche nella musica, nella fotografia e nella tecnica dell’espressione cinematografica e del suo conseguente montaggio.

      Un artista completo che meriterebbe una prestigiosa più ampia ed accreditata ribalta.

      Per quanto Egli se ne schermisca, il suo tratto caratteristico, sia che operi col pennello, con la matita o con la china, evidenzia una indefettibile conoscenza del mestiere e le regole che lo supportano.

      Le tematiche usate rispecchiano il suo mondo interiore nel quale la sensibilità rappresenta il leitmotiv.

      La visione impressionista dell’autore, congiunta ad una sapiente maestrìa, che proviene più dalla natura che dallo studio, emerge indomita ed impellente.

     Al di là di ogni possibile intuizione cattedratica, Coco coglie l’attimo fugace dell’ispirazione e senza tentennamenti o studi preparatori, di getto dà forma e contenuto all’immagine, al quadro, al ritratto, al disegno, allo storyboard, o allo scarabocchio; figure che in quel momento, e solo in quello, gli pervadono la mente stuzzicando il suo continuo interesse verso il tangibile, verso tutto ciò che lo circonda e verso il significato recondito che ogni cosa, ogni immagine, ogni dimensione, ogni oggetto possa contenere.

      E’ il “colpo d’occhio” che spinge l’Autore a prodursi in un determinato lavoro; colpo d’occhio che non ammette ripensamenti o rifiniture o riflessioni particolari per andare avanti nel completamento dell’idea che l’ha improvvisamente pervaso ed irretito.

      La sua visione del bello, dell’interessante, dell’esternabile è estemporanea: detto fatto; il suo modo di fare arte lo porta inconsapevolmente ad accomunarsi ai dettami stilistici dei macchiaioli, o di tanti altri artisti che dell’impressionismo hanno fatto una scuola.

      Ma questo suo inconsapevole assimilarsi ad una corrente nata nella Francia del XIX secolo, l’”Impressionismo”, ed attiva e vitale sino ai nostri giorni, proviene più da una dote congenita che da un cattedratico manierismo.

      Non è da sottacere che il padre insegnava disegno ed era pittore anche lui. Il figlio ne avrà certamente ereditato la linfa accrescendola con la propria poetica.

      La luce ed il desiderio impellente, attraverso quella, di fermare sulla tela, sul foglio o su quant’altro uno squarcio emotivo della realtà contingente rappresentano i motivi più accreditabili a che un artista indulga in un certo lavoro; che, poi, siano un volto, un personaggio, un oggetto o quant’altro, a suscitargli una sensazione improvvisa che d’un tratto lo coglie e lo galvanizza, o che siano una rimembranza, un pensiero od una convinzione, ha poca importanza; l’importante è che l’interesse destato lo coinvolga e sia preponderante.

      Questi elementi rappresentano, appunto, le linee di base della cultura impressionista che tende a ricreare l’immagine non attardandosi ad una capillare rifinitura.

      E così, il lasciarsi alle spalle il lavoro in istudio, il preferire lo spostarsi all’esterno alla ricerca di un quid esistenziale che polarizzi la sua attenzione al punto da invogliarlo a concretizzare su una tela ciò che si è visto e fermato nella memoria, rappresenta la linfa creativa  primaria che alita nell’etica del Nostro.

      Quasi senza saperlo e senza volerlo, ma con profonda umiltà, Coco, con le sue opere, nelle quali la motile espressione di quanto effigiato racchiude in sé qualcosa di squisitamente cinematografico rendendo immediatamente vitale ogni scelto assunto scenico, si accosta a pieno titolo a questa schiera impressionista, a questa corrente catalizzatrice della improvvisazione, nella quale, in vari momenti epocali,  gravitarono  artisti del calibro di un Pissarro, Manet, Degas, Sisley, Cèzanne, Monet, Bazille, Renoir, Monsot, Cassatt, Caillebotte..

      La “Musa ispiratrice”, olio su tela, visione che apre la nutrita raccolta, adombra in sé una realtà sofferta ben definita che l’Autore scandisce con mano sicura e verace. E’ dedicato alla moglie ed i pezzi scenici che vengono assemblati nella tela e che compongono l’atmosfera del dipinto denunciano un particolare stato d’animo dell’Autore in un suo particolare momento esistenziale.

      Infatti, attraverso il progredire del disegno, man mano che esso si sviluppa e procede, il senso umano dell’artista si rapporta e dialoga con se stesso svelando pensieri, stati d’animo ed emozioni. E’, quasi, un’operazione liberatoria, la sua, l’affrancarsi da un fluttuante magma interiore che lo condiziona, che non è più contenibile e che deve necessariamente venir fuori e palesarsi affinché la tensione del suo animo possa placarsi.

      L’estetica del pittore si dispiega nel considerare il quotidiano travaglio dell’esistenza attraverso un’espressione, una semplice pennellata di colore, o l’atteggiamento di un personaggio o con l’accurata disposizione di alcuni oggetti su un mobile o su quant’altro.

      Ed, a seguire: l’accolta delle figure, paesaggi, l’immedesimazione di un pianista assorto nell’atto di comporre o di semplicemente eseguire un brano musicale con elaborato virtuosismo, il sensuale accavallarsi delle gambe d’una prestante figura femminile seduta (nel dipinto “Donna in tailleur”) che tiene una mano negligentemente appoggiata sul sedile in una posa usuale ma dinoccolata, immagine lasciata anonima in quanto considerata dal tronco in giù quasi a voler far emergere il senso di incompletezza delle cose tanto caro all’artista, l’intensità del gruppo de l’ “Inconscio” che si rifà larvatamente alla teoria su l’ “inconscio collettivo” di Jung, o “La danza”, quasi un’istantanea scattata durante un ballo, o, ancora, “L’assoluto della rosa” in cui i ghirigori dei petali di un bocciolo formano delle volute da cui traspaiono particolari molteplici significati; e poi gli ineludibili scarabocchi nei quali l’Autore immortala espressioni colte sul momento e di personaggi conosciuti o semplicemente ricordati, oppure il disegno a matita tratto da un fotogramma del film “Gli ultimi 20 minuti” realizzato dal sottoscritto ed al cui rimontaggio digitale Coco ha fattivamente e lodevolmente collaborato.

      Tutto, tutto è una esternazione ispirata che palesa una raffermata intuizione estetica e stilistica di indubbio valore; un mondo arcano dove l’essenza mediatica del dipinto trascende la tela e colpisce la dimensione sensibile del fruitore.

      Fugacemente conclusivo ed emblematico l’ultimo quadro del testo, “Il buio” (caso singolare è anche il titolo di un mio film), che per l’Autore rappresenta un punto cardinale, determinato dall’assenza della luce, primaria interlocutrice del vedere. Il buio della notte o quello ingenerato dalla volontaria chiusura delle palpebre impedendo la vista ingenera pensieri, sensazioni, emozioni, riflessioni, visioni. Una fantasmagorica girandola che attrae ed allontana allo stesso tempo. E’ l’animo che indaga se stesso, che si pone allo scoperto e si esamina sotto la supervisione dell’implacabile coscienza. Con rara efficacia, in antitesi con la luce, il buio sostanzia tutte le immaginazioni umane; può rappresentare un salto nell’inconscio, nell’informale, nella concezione del nulla. E’ la dimensione  dove ogni visione reale si scompone, scompare e tiene il campo ciò che la sbrigliata fantasia può produrre; è lo Stige infernale ed i pensieri si moltiplicano in una girandola metafisica di sogno e di pura fantasia.

      Il buio, l’oscurità: la notte degli ectoplasmi, dell’incoerenza fisica, il luogo dove tutto si dissolve, sbiadisce e si annienta.

      Assume un aspetto che decisamente richiama una riflessione,  questo suo porre come ultima immagine del testo, alcova fiorita d’un fantasmagorico caleidoscopio di aspetti figurativi immersi nel reale quotidiano, questa letale oscurità, quasi a voler esprimere filosoficamente l’arco della vita che alla fine riporta inesorabilmente al nulla, all’inesistenza, allo spirituale buco nell’ozono, al naufragio di ogni speranza soggettiva che ci fà favoleggiare durante la dimensione fisica.

      Il buio è la fine di tutto, è la morte del pensiero, i’eterno letargo dell’essere; concezione cosmica da me condivisa, che si discosta da ogni credenza ultraterrena.

      E’ l’amara constatazione della caducità dell’essere.

      L’accolta delle immagini di Toti Coco risalta viva come faro nella nebbia e traduce sul piano umano una casistica di sentimenti e di personalissime intuizioni che rendono l’esperienza di un artista interessante e degna di essere vissuta ed apprezzata.

31 Marzo 2021

Giuseppe Maggiore

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